Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca delle pandemie

Chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre avuto negli affari umani, ed è a prima vista piuttosto sorprendente constatare come la violenza sia stata scelta così di rado per essere oggetto di particolare attenzione. Questo dimostra fino a che punto la violenza e la sua arbitrarietà siano state date per scontate e quindi trascurate: nessuno mette in di­scussione o sottopone a verifica ciò che è ovvio per tutti1.

La violenza è l’oggetto di attenzione di questo libro e for­nire un contributo a decostruirne il suo essere ovvia per tut­ti – come denunciato da Hannah Arendt – e a prepararne le alternative è l’obiettivo di queste pagine, attraverso una sele­zione ragionata di articoli pubblicati sui miei blog durante la pandemia di covid-19. Ossia durante un lungo periodo di crisi globale che, come tutte le crisi, mentre rende esplicite le molte contraddizioni che l’hanno generata, può rappresentare l’occasione per cambiare strada, porre rimedio agli errori del passato, aprire nuove e differenti prospettive di sviluppo. La violenza e la sua ovvietà, il suo essere l’implicito culturale da non mettere in discussione – emerso in tutte le sue implica­zioni durante quest’ultima pandemia – è il fondamentale pro­blema della condizione umana, tanto sul piano personale che collettivo. Per questo è necessario metterla a tema, sottrarla all’ovvio, dirne la verità che è aletheia, cioè disvelamento, e in­dicarne alcune via di superamento.

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Daniele Lugli era un dono. E un pezzo di storia della nonviolenza italiana

Nell’oltre un quarto secolo di conoscenza personale di Daniele Lugli la sua fama aveva preceduto il nostro incontro reale. Nel mio lavoro di ricerca su Aldo Capitini avevo visto tante volte la storica foto del fondatore del Movimento Nonviolento seduto sul prato della campagna perugina, a margine del Seminario internazionale sulla nonviolenza del 1963, circondato da Danilo Dolci, Pietro Pinna (figure che avrei incontrato anche personalmente) e da altri più giovani amici, che poi avrei scoperto chiamarsi Enzo Bellettato, Riccardo Tenerini, Eugenia Bersotti e, appunto, un giovanissimo Daniele Lugli (nell’immagine il primo da sinistra). Di Daniele sentirò parlare durante la partecipazione al mio primo congresso del Movimento Nonviolento, a Fano nel 1997, durante il quale viene candidato da Alberto L’Abate (un altro indimenticato punto di riferimento della nonviolenza) alla Segreteria nazionale. Alla quale sarà eletto all’unanimità, ma… senza essere presente. E poiché, in quella occasione, sarò eletto anch’io nel Comitato di Coordinamento nazionale, da lì in avanti Daniele diventerà anche un mio punto di riferimento personale. Saggio, empatico, ironico, autorevole. E realizzerò solo allora che dietro alla barba già bianca si nasconde il sorriso dello stesso ragazzo di quella ed altre immagini iconiche con Aldo Capitini.

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Don Milani e i principi dell’impegno morale contro la guerra, a cento anni dalla nascita

Il 27 maggio si celebra il centenario della nascita di Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, noto al grande pubblico per la famosa “Lettera a una professoressa” del 1967, che rappresenterà un punto di riferimento fondamentale per la critica del ‘68 alla scuola classista e per il metodo pedagogico della scuola popolare, che avrà infinite imitazioni. Eppure, è destino comune a molti personaggi, dirompenti nel proprio tempo, di essere trasformati in innocui “santini” nella narrazione pubblica successiva, come per esempio è successo a Martin Luther King negli USA: in Italia è accaduto proprio a don Milani, di cui, pur avendo oggi innumerevoli scuole a lui dedicate, è andata persa la radicalità trasformativa del suo insegnamento. La cui potenza e attualità emergono in tutta la loro evidenza anche da altre due lettere, forse meno note ai più: quella ai cappellani militari della Toscana e la successiva ai giudici del suo processo per apologia di reato.

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Un’utopia concreta a cui dare gambe solide. Intervista sulla campagna per il Ministero della Pace

Lo scorso 6 maggio si è svolto a Bologna il seminario nazionale a cura della campagna per il “Ministero della pace”, al quale ho partecipato in rappresentanza del Movimento Nonviolento e di Rete Italiana Pace e Disarmo. Eccone un’intervista sul tema, a cura di Laila Simoncelli, pubblicata su Sempre news

A Bologna il 6 maggio scorso, si è riflettuto sul Ministero della pace per ripensare i paradigmi istituzionali.

Quale ruolo e funzioni rispetto al disarmo dovrebbe avere questo nuovo Ministero?

«In questa fase – nella quale lo stesso ministero della “difesa” si caratterizza sempre di più come ministero della “guerra” – più che sulle funzioni del Ministero della Pace, sarebbe necessario ragionare sui mezzi per realizzarlo, e autenticamente, come fine. Credo sia necessario lavorare contemporaneamente, sui mezzi e sul fine, per costruire una cultura politica di pace, fondata sulla nonviolenza e il disarmo, che abbia come esito, anche il riconoscimento istituzione di un ministero ad essa dedicato; politiche portate avanti oggi dal basso, attraverso forme di lotta e di impegno nonviolento delle relative campagne, affinché diventino domani autentiche politiche di pace dei governi del nostro paese. Ossia coniugare “pacifismo giuridico” e “pacifismo strumentale”, secondo la distinzione proposta da Norberto Bobbio. In questo senso il fine del ministero della pace – e quindi di istituzioni autenticamente pacifiste, secondo lo spirito e la lettera della Costituzione – dovrebbe essere conseguente (e coerente) all’impostazione di politiche attive di pace, cioè di disarmo e riconversione sociale delle spese militari, di riconversione civile dell’industria bellica e adesione al Trattato per la messa al bando delle ami nucleari, di costrizione della difesa civile non armata e nonviolenta e dei corpi civili di pace. Sul tema delle risorse sulle quali dovrà e potrà contare il futuro ministero, a mio avviso, sono da spostare dalle risorse risparmiate attraverso i processi di disarmo e di drastico taglio alle spese militari».

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L’obbedienza non è più una virtù: la più attuale delle lezioni di don Milani

[Intervista per l’agenzia di stampa Pressenza, a cura di Olivier Turquet, in preparazione della riflessione per i 100 anni di Don Milani che concluderà domenica 28 Maggio la seconda edizione di Eirenefest, il festival del libro per la pace e la nonviolenza]

Intanto un chiarimento: non sempre la figura di Don Milani viene associata alla nonviolenza, come mai secondo te? E puoi spiegare i legami profondi tra il priore di Barbiana e la nonviolenza?

E’ destino comune a molti personaggi, dirompenti nel proprio tempo, di essere trasformati in innocui “santini” nella narrazione pubblica successiva, come per esempio è successo a Martin Luther King negli USA: in Italia è accaduto a don Milani, che ha innumerevoli scuole a lui dedicate, ma del quale è andata persa la radicalità trasformativa del messaggio. Se c’è un ambito nel quale, invece, il suo insegnamento non solo ha resistito ma è stato generativo, è proprio nel mondo della nonviolenza, in particolare tra gli obiettori di coscienza. Generazioni di giovani nel nostro paese (tra i quali il sottoscritto, a suo tempo) si sono dichiarati obiettori di coscienza al servizio militare dopo aver letto gli atti del suo processo: la lettera incriminata ai cappellani militari e la successiva lettera ai giudici. Pubblicati in origine dalla Libreria Editrice Fiorentina con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù”, sono stati anche il quarto “Quaderno” di materiali di approfondimento pubblicato da “Azione nonviolenta”, la rivista fondata da Aldo Capitini, e negli anni più volte ristampato. Anche negli attuali percorsi di formazione generale rivolti ai volontari in servizio civile sulla storia dell’obiezione di coscienza, il riferimento a don Lorenzo Milani è imprescindibile. Per me, in quanto formatore di formatori, una lettura obbligatoria sulla quale svolgo lavori di gruppo con formatori e ragazzi. Il rapporto di don Milani con la nonviolenza è, dunque, strutturale, tanto su piano del contributo di idee e di impegno civile ed educativo, quanto sul piano dell’interlocuzione diretta con le figure di riferimento del movimento nonviolento italiano, a cominciare da Aldo Capitini, che fu più volte a Barbiana e con il quale fu progettato e stampato (seppur per soli quattro numeri) il “Giornale scuola”, una sorta di ipertesto ante litteram e artigianale.      

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Da Albert Einstein a Carlo Rovelli: la razionalità dei mezzi di pace contro l’irrazionalità degli strumenti di guerra

Il fuoco di fila mediatico partito quasi all’unisono, non contro il bellicismo del governo e del suo ministro della “difesa”, ma contro il fisico Carlo Rovelli che lo ha disvelato dal palco romano del Primo Maggio, con l’invito ad occuparsi di scienza anziché di politica, oltre ad essere espressione di cattiva coscienza, disconosce l’impegno storico di intellettuali e scienziati contro la guerra. Ossia per l’affermazione della razionalità, anziché del pensiero magico, anche nel campo della risoluzione dei conflitti.

Lo stesso Carlo Rovelli, nel dicembre del 2021, prima dell’internalizzazione della guerra in Ucraina con l’invasione dell’esercito russo, aveva coordinato la campagna per il Dividendo di pace che ha messo insieme più di cinquanta tra premi Nobel e presidenti di Accademie delle scienze nell’appello inviato al Segretario generale dell’ONU ed ai cinque governi del Consiglio di sicurezza (USA, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) nel quale si chiede un taglio comune del 2% delle spese militari annue, proponendo che la cifra risparmiata venga dirottata su un fondo globale per la lotta al cambiamento climatico, le pandemie e la povertà estrema. Una richiesta razionale, ignorata dai governi e dai media, mentre l’irrazionale corsa agli armamenti – come ha ricordato Rovelli – viaggia verso la cifra inimmaginabile di due trilioni e mezzo di euro all’anno. Preparando l’inevitabile, di questo passo, terza e definitiva guerra mondiale.

Il tema, del resto, era stato anche posto – su invito non dei sindacati, ma della Società delle Nazioni – da un illustre predecessore di Carlo Rovelli, Albert Einstein che nel 1932 scrisse la celebre lettera a Sigmund Freud ponendo al padre della psicoanalisi la domanda cruciale: “c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”. Mentre rimando al carteggio tra i due per la risposta di Freud, metto a fuoco qui alcune delle questioni di Einstein che contengono già l’articolazione di possibili risposte, valide anche oggi. Già nel ‘32 Einstein era consapevole che l’evoluzione della tecnica rendeva quella domanda “una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta”. La quale sarebbe stata travolta pochi anni dopo dalla seconda guerra mondiale, che avrebbe lasciato come eredità le armi nucleari, spada di Damocle permanente sull’umanità.

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La liberazione si chiama disarmo, la resistenza si chiama nonviolenza. Oggi più che mai

Sono passati dieci anni da quando, in un articolo per il 25 aprile, scrivevo che oggi la liberazione si chiama disarmo e la resistenza si chiama nonviolenza – formula che il 25 aprile dell’anno successivo sarebbe diventata lo slogan della grande manifestazione pacifista nazionale all’Arena di Verona, dalla quale fu lanciata la campagna Un’altra difesa è possibile – eppure in un decennio c’è stata una tale precipitazione delle cose che quell’auspicio di allora diventa urgenza improrogabile di oggi.

Nel 2013 il rapporto annuale del SIPRI, l’autorevole istituto di ricerca internazionale di Stoccolma, segnalava una già preoccupante crescita delle spese militari globali ad oltre 1.700 miliardi di dollari; secondo il rapporto reso noto oggi, con un salto di oltre 500 miliardi in soli dieci anni e di 127 rispetto all’anno precedente (+ 3,7%), nel 2022 sono giunte alla nuova cifra record di 2240 miliardi di dollari. In Italia allora si spendevano in armamenti 24 miliardi di euro, oggi l’Osservatorio sulle spese militari italiane documenta che sfioriamo i 27 miliardi di euro, che nel giro di alcuni anni diventeranno quasi 40 con l’aumento al 2% del PIL, come voluto dalla Nato e votato un anno fa dal Parlamento italiano. Risorse nazionali e globali sottratte agli investimenti civili, sociali ed ambientali, necessari a fare fronte alla crisi sistemica globale che genera quei conflitti che, invece, proprio le armi trasformano in guerre.

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Guerra, armamenti e militarismo: nell’escalation non c’è salvezza

Nella filmografia di Ivano Marescotti, grande attore recentemente scomparso, c’è anche un film visionario a episodi uscito negli anni ‘90, Strane storie. Racconti di fine secolo (regia di Sandro Baldoni), del quale un episodio rappresenta la dinamica dell’escalation all’interno dei conflitti. Il racconto mette in scena due famiglie che abitano lo stesso condominio, una povera e indigena l’altra ricca e immigrata, che sviluppano un conflitto passando dal pregiudizio reciproco alle accuse verbali, dall’esibizione delle armi alla guerra vera e propria. Con esiti catastrofici per tutti, non solo per i confliggenti. E’ narrata in quell’episodio, pur nei toni grotteschi, la dinamica di uno scontro tra due gruppi umani (familiari, in questo caso, compresi i bambini), che si ricompattano al loro interno nella guerra al nemico comune in un crescendo di violenza speculare, che si svolge nell’assenza di qualsiasi soggetto mediatore e, contemporaneamente, alla presenza di aizzatori per entrambi i “fronti”, ossia fornitori di armi per incrementare la guerra e i loro profitti. Intanto sugli schermi televisivi di entrambi gli appartamenti scorrono le immagini reali dei notiziari sulla guerra nei Balcani, contemporanea ai fatti narrati. E’ un film da rivedere perché spiega ciò che c’è di sbagliato nell’abbandonare un conflitto a se stesso – in balia di chi ha interessi affinché l’escalation continui all’infinito – anziché attivare percorsi di de-escalation, di canali di comunicazione, di mediazione, di costruzione della pace fondata non sull’impossibile assenza di conflitti, come sa ogni bravo mediatore di condominio, ma sulla loro gestione nonviolenta.

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La rimozione della memoria scomoda: gli aggrediti dimenticati nel ventennale della guerra all’Iraq

[Bombardamento USA al fosforo bianco sulla città irakena di Falluja]

Anche i ventennali dei fatti storici subiscono i doppi standard: mentre quello relativo all’attentato terroristico dell’11 settembre, celebrato nel 2021, è stato l’occasione per una grande e duratura attenzione mediatica internazionale, i ventennali di quelle guerre che sono state raccontate, al tempo, come risposte consequenziali – ossia l’aggressione di USA e suoi alleati agli stati sovrani di Afghanistan prima e Iraq dopo – sono stati invece ignorati dai media, salvo qualche lodevole eccezione, con una gigantesca operazione di rimozione collettiva della memoria scomoda. Rilevavo questa violenza culturale, svolta per omissione – che si somma alla violenza della guerra e delle sue conseguenze – già nell’ottobre di due anni fa in riferimento al ventennale dell’inizio dell’occupazione dell’Afghanistan (qui); lo rilevo con queste note in riferimento al ventennale dell’inizio dell’aggressione militare dell’Iraq (già pubblicate qui sul Fatto Quotidiano on line)

Il 20 marzo di venti anni fa aveva inizio la criminale e illegale aggressione e occupazione militare dell’Iraq, guidata da USA e Gran Bretagna, alla quale i nostri governi si sono accodati, “fondata” e “giustificata” sulla menzogna delle inesistenti “armi di distruzione di massa” del regime irakeno, sbandierata – tra l’altro – con l’ormai iconica fialetta fake da Colin Powell, Segretario di Stato di George W. Bush, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 5 febbraio 2003.

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Un anno dopo sull’orlo dell’abisso: adesso mettere in campo i saperi della nonviolenza

Dall’invasione militare russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 ad oggi è in corso una doppia guerra: quella combattuta sul territorio ucraino, di fatto tra due superpotenze nucleari, e quella mediatica che si svolge all’interno di entrambi i fronti, che Edgar Morin chiama “isteria di guerra”. La guerra sul terreno è ormai un “aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso”, com’è stata efficacemente definita dal filosofo Jürgen Habermas (la Repubblica, 19 febbraio 2023), evocando forse il libro “I sonnambuli” dello storico Christopher Clark che racconta come le case regnanti del 1914 portarono il mondo dentro l’abisso della “grande guerra” muovendosi come sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere l’orrore nel quale stavano facendo precipitare l’umanità. Ma l’abisso sul cui orlo ci troviamo adesso è quello incomparabilmente più devastante della guerra nucleare, rispetto al quale i governi e i popoli sono stati ripetutamente avvisati. Per esempio dall’Associazione degli scienziati atomici che il 24 gennaio scorso hanno spostato le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse a soli 90 secondi dalla mezzanotte, situazione di pericolo mai raggiunta prima; oppure dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres: “siamo al più alto rischio da decenni di una guerra nucleare che potrebbe iniziare per caso o per scelta” (Twitter, 8 febbraio 2023).

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E’ tempo di dispiegare gli strumenti della ragione anziché le armi della follia

Note su un anno di guerra in Ucraina e nelle nostre menti, in dialogo con Edgar Morin

Già in tempi cosiddetti normali, è predominante

la conoscenza compartimentata e decontestualizzata.

Quando imperversa l’isteria fanatica o l’isteria di guerra,

essa diventa sovrana e provoca l’odio di ogni conoscenza complessa

e di ogni contestualizzazione.

[Edgar Morin, Di guerra in guerra]

Per fare riflessioni dotate di senso in occasione di questo primo anno dall’invasione russa dell’Ucraina, tra le tante pubblicazioni uscite, suggerisco anche la lettura di un libretto tanto denso quanto essenziale, ossia di “Di guerra in guerra” (Raffaello Cortina, 2023), che raccoglie le riflessioni di Edgar Morin sulla guerra, il quale nella sua lunga vita (101 anni e una chiarezza di analisi e visione inarrivabili dalla maggior parte degli “analisti” che da dodici mesi ripetono su tutti i media il mantra del circolo vizioso più armi-più guerra-più armi) ha partecipato attivamente alla resistenza contro il nazifascismo ed ha osservato con sguardo lucido le tante guerre che da allora hanno tragicamente contrassegnato il mondo contemporaneo. E’ una lettura che aiuta a uscire da alcuni dei principali vizi interpretativi della nuova guerra in corso in Europa, che continuano a determinare irresponsabili scelte politiche e militari da parte dei governi europei e statunitense per rispondere all’ingiustificabile invasione russa: l’isteria di guerra, il presentismo decontestualizzante, l’illusione della vittoria. Sono questioni che più volte abbiamo messo a fuoco nei mesi passati – dall’interno del movimento per la pace – ma che è necessario rilanciare, anche con l’autorevole legittimazione fornita dal grande filosofo francese.

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