Note su un anno di guerra in Ucraina e nelle nostre menti, in dialogo con Edgar Morin
Già in tempi cosiddetti normali, è predominante
la conoscenza compartimentata e decontestualizzata.
Quando imperversa l’isteria fanatica o l’isteria di guerra,
essa diventa sovrana e provoca l’odio di ogni conoscenza complessa
e di ogni contestualizzazione.
[Edgar Morin, Di guerra in guerra]
Per fare riflessioni dotate di senso in occasione di questo primo anno dall’invasione russa dell’Ucraina, tra le tante pubblicazioni uscite, suggerisco anche la lettura di un libretto tanto denso quanto essenziale, ossia di “Di guerra in guerra” (Raffaello Cortina, 2023), che raccoglie le riflessioni di Edgar Morin sulla guerra, il quale nella sua lunga vita (101 anni e una chiarezza di analisi e visione inarrivabili dalla maggior parte degli “analisti” che da dodici mesi ripetono su tutti i media il mantra del circolo vizioso più armi-più guerra-più armi) ha partecipato attivamente alla resistenza contro il nazifascismo ed ha osservato con sguardo lucido le tante guerre che da allora hanno tragicamente contrassegnato il mondo contemporaneo. E’ una lettura che aiuta a uscire da alcuni dei principali vizi interpretativi della nuova guerra in corso in Europa, che continuano a determinare irresponsabili scelte politiche e militari da parte dei governi europei e statunitense per rispondere all’ingiustificabile invasione russa: l’isteria di guerra, il presentismo decontestualizzante, l’illusione della vittoria. Sono questioni che più volte abbiamo messo a fuoco nei mesi passati – dall’interno del movimento per la pace – ma che è necessario rilanciare, anche con l’autorevole legittimazione fornita dal grande filosofo francese.
Non ha avuto l’eco che avrebbe meritato la ricerca nazionale del Laboratorio Adolescenza e dell’Istituto IARD che ha indagato le poche speranze e i tanti timori degli adolescenti nella prima parte del 2022. Si tratta della prima ricerca che – accanto al tema dell’impatto del covid (e delle misure di contenimento adottate) su ragazze e ragazzi – ha messo a fuoco anche l’impatto su di essi della guerra in Ucraina, esplosa anche mediaticamente dallo scorso febbraio su tutti i dispositivi digitali. “Se gli adolescenti ancora faticano a ritrovare la serenità perduta a causa del Covid” – scrivono i ricercatori – “lo scoppio della guerra in Ucraina ha ulteriormente minato il loro senso di fiducia verso il futuro. La preoccupazione degli adolescenti risulta elevatissima (percentuali che oscillano tra l’80 e il 90%) per la maggior parte delle possibili conseguenze dirette e indirette che possono derivare dal conflitto. Ma oltre il 75% è anche preoccupato per il possibile scoppio di una terza guerra mondiale o per un eventuale coinvolgimento diretto dell’Italia nel conflitto”. Per contribuire a questa situazione di pesante disorientamento generazionale e generalizzato – nel quale, commenta Maurizio Tucci, presidente del Laboratorio Adolescenza, “passare dalla Dad alla guerra, senza soluzione di continuità, ha reso gli adolescenti, già duramente colpiti a livello psicologico dalla pandemia, ancora più fragili e timorosi” – la narrazione mediatica della guerra aveva potentemente dispiegato i suoi dispositivi dis/educativi pervasivi attraverso la precipitazione culturale del paese in un inedito e virulento clima bellicista – “isteria bellica” l’ha definita recentemente Edgar Morin sul suo profilo twitter, in riferimento alla Francia – volto a disconfermare e destabilizzare – come avevamo raccontato nei mesi scorsi qui e qui – i modelli che sembravano sostanzialemente acquisiti di educazione civile, pacifista e costituzionale. Aumentando timori e senso di precarietà di ragazze e ragazzi.
Come sappiamo, in un paese come il nostro dove la Resistenza antifascista ha rappresentato una parte fondamentale dell’identità repubblicana, la partecipazione alla guerra con la fornitura di armi al governo ucraino ha fatto massicciamente leva anche sulla retorica della resistenza, attraverso un ripetuto parallelismo tra la resistenza italiana negli anni 1943-45 al nazifascismo e la “resistenza” degli ucraini all’occupazione russa. Una retorica che ha colpito intenzionalmente anche l’Anpi ed il suo presidente Gianfranco Pagliarulo a causa della legittima critica verso l’invio di armi, in particolare nelle settimane precedenti le celebrazioni del 25 aprile. Ma si tratta di una “retorica”, appunto, costruita per toccare i tasti emozionali profondi di una parte sensibile del Paese – orientandola sul “dovere morale” di armare questa “resistenza”, analogamente all’invio di armi alleate a beneficio dei partigiani italiani – anziché contribuire a svolgere un’analisi ragionata di similitudini e differenze. Che, invece, è necessario fare per punti successivi.
Nei giorni scorsi ho appreso la notizia della morte del professor Andrea Canevaro, straordinaria figura di pedagogista dell’Università di Bologna, educatore di generazioni di educatori, che ho avuto la fortuna di incontrare molte volte nella mia professione educativa. Una di queste è stata al Convegno nazionale “Progettare futuri” che svolgemmo al Teatro Ariosto di Reggio Emilia dal 24 al 26 marzo del 2003, pochi giorni dopo l’inizio dei bombardamenti occidentali su Baghdad con i quali partiva l’illegale e pretestuosa occupazione militare dell’Iraq (20 marzo), con il diretto coinvolgimento italiano, che avrebbe provocato centinaia di migliaia di morti tra i civili. Mi colpì, in quella occasione, che Canevaro sentì – come sentii anch’io che intervenivo come educatore – il bisogno di modificare il tema dei suoi interventi rivolti ad una platea di educatori e centrarli proprio sulla menzogna della guerra, sulla sua funzione diseducativa, al contrario dell’educazione ai conflitti, e sul bisogno di alzare una barriera educativa contro la violenza.
Andrea Canevaro: la vergogna e la menzogna della guerra
“Parto proprio dalle guerre e da questa che da pochi giorni ci ritroviamo” – diceva Andrea Canevaro (Oggi in Progettare futuri. Pensieri, esperienze, passioni nella progettazione educativa territoriale, EGA, 2004, a cura di Alfonso Corradini) – “Tra i tanti danni che fanno c’è anche il grave danno di mettere da parte la ricerca della verità e di promuovere le menzogne, di dare le false semplificazioni degli schemi contrapposti: amico-nemico, carnefice-vittima, onnipotente-impotente. Questa è la falsificazione della verità che sta dilagando nelle nostre case e che avuto una lunga preparazione”.(…). Accettazione di conflitto e capacità di dialogo camminano insieme e vediamo che l’incapacità del conflitto porta alla guerra. Il conflitto inteso come capacità di confronto, come necessità di ragionamento, di ragionare, di far ragionare, di ascolto diventa l’elemento importante. Se invece si rifiuta il conflitto si va in guerra.(…) Rubo un tempo brevissimo per citare alcune parole di un narratore importante, Nuto Revelli. Nuto, che ho la gioia di conoscere e sentire spesso, è un grande educatore, di quelli che non hanno un titolo. Lui era ufficiale, aveva frequentato l’accademia a Modena negli ultimi anni del fascismo, poi aveva partecipato alla guerra di Russia e subito aveva pensato che la guerra fosse una vergogna, e dovremmo saperlo anche in questi giorni. La guerra è una vergogna e non ci si può abituare, per cui Nuto aveva cominciato a notare e appuntare il perché è una vergogna e non voleva diventare come altri che la vivevano con una banalizzazione continua della morte, della puzza, degli orrori. L’aspetto della menzogna continua, soprattutto questo, credo che sia quello che sta emergendo anche in questi giorni, perché le guerre sono la cancellazione delle verità, la necessità di fingere, di raccontare delle cose non vere, di giustificare con delle menzogne. (…) L’ultimo libro di Nuto Revelli Le due guerre: guerra fascista e guerra partigiana è anche un’insegna della vergogna della guerra, per cui è intonato a questi giorni e sarebbe bello che avesse una bella diffusione e fosse molto conosciuto. Chiedo scusa se ho speso troppo tempo, ma ho sentito la necessità di far capire che non siamo indifferenti a quel che accade, abbiamo il desiderio di non far passare niente senza ricordarci che dobbiamo vergognarci per quello che sta accadendo e che dobbiamo alzare una barriera contro la violenza, contro la menzogna.”
Nel giro di alcuni giorni sono uscite tre pubblicazioni importanti che aiutano a comprendere ciò che sta accadendo nel mondo e nel nostro paese, sia nella loro singolarità che nella possibile relazione reciproca fornita da una lettura incrociata. La prima delle tre pubblicazioni è il Rapporto SIPRI 2022, l’autorevole Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, relativo all’anno 2021, il quale dimostra con dati inoppugnabili come i governi nel loro complesso – anche nel secondo anno di pandemia – abbiano continuato inesorabilmente ad aumentare le spese militari dei bilanci pubblici, superando, per la prima volta nella storia, la soglia dei 2000 miliardi, giungendo fino a 2113 miliardi di dollari. Si tratta di una crescita dello 0,7% rispetto al 2020 e di un aumento del 12% in dieci anni, oltre che della conferma del raddoppio netto delle spese militari – sottratte agli investimenti civili – negli ultimi venti anni, ossia dall’avvio dell’aggressione militare guidata dagli USA in Afghanistan nel 2001, conclusasi lo scorso agosto. Non a caso gli Stati Uniti da soli rappresentano il 38% della spesa militare mondiale, mentre la spesa complessiva dei 30 Paesi della NATO equivale al 55% del totale globale e quella della Russia al 3,1%. In questo quadro L’Italia si conferma all’undicesimo posto al mondo per spesa in armamenti, con una crescita del 4,6% rispetto al 2020 (maggiore della media dell’Europa occidentale che si assesta su un +3,1%). Naturalmente, questi dati sono precedenti alla decisione dei governi europei di portare al 2% del PIL la propria spesa militare, su pressione della NATO. L’estrema gravità della situazione internazionale che ci vede – di fatto – dentro ad una guerra mondiale che si svolge, per il momento, all’interno del territorio ucraino con il rischio di divampare da un momento all’altro in tutta Europa, anche con l’uso delle armi nucleari (oltre alle diverse decine di altre guerre in corso nel pianeta sulle quali i media tacciono), dimostra – evidente/mente – che la crescita progressiva degli armamenti non porta più sicurezza e più pace, come viene millantato dai governi che la promuovono, ma esattamente il contrario: più insicurezza globale e più guerre ovunque. E’ solo la credenza diffusa in un pensiero magico, pre-razionale, ma funzionale al complesso militare-industriale internazionale – come abbiamo più volte spiegato, per esempio qui – che può consentire questa lucida follia che sta conducendo l’umanità sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Anziché i folli capi di molti governi ad un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
[Intervista pubblicata originariamente sulla testata Sapereambiente del 29 marzo 2022]
Dall’assurda sospensione di corsi universitari su Fëdor Dostoevskij, alle accuse automatiche di “filo-putinismo” per chiunque provi ad articolare discorsi approfonditi. Stiamo degenerando verso una pedagogia di guerra, le cui tracce linguistiche serpeggiavano già con la pandemia. Il filosofo ci spiega il suo punto di vista
La pace è una scelta. Non ha soltanto delle connotazioni teoriche, ideologiche. Per questo in un suo recente articolo ha recuperato i concetti di etica della responsabilità e principio di responsabilità, con riferimenti a Max Weber e a Hans Jonas?
Proprio così: oggi più che mai la costruzione di politiche attive di pace – da preparare giorno per giorno, come ricordava Capitini – risponde a un preciso imperativo etico. Max Weber, già dopo la prima guerra mondiale, distingueva l’agire politico secondo ”etica dell’intenzione” da quello secondo ”etica della responsabilità”. Nell’agire secondo l’etica dell’intenzione ci preoccupiamo di avere la coscienza a posto rispetto all’obiettivo da conseguire, qualunque esso sia, e quindi ogni mezzo appare legittimo per raggiungere il fine, senza occuparci delle conseguenze. Secondo l’etica della responsabilità, al contrario, si cerca di prevedere e valutare le conseguenze del proprio agire, per cui se il perseguimento di un obiettivo buono rischia di produrre “effetti collaterali” negativi, bisogna mettere in campo dei mezzi coerenti con i fini da raggiungere. Nel nostro tempo, il principio responsabilità è stato riformulato dal filosofo Hans Jonas come “etica per la civiltà tecnologica”, secondo la seguente prescrizione: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra». E proprio la vita umana, da Hiroshima in avanti, è sotto la spada di Damocle della minaccia delle armi nucleari. Il Bollettino degli scienziati ci avvisa – ormai consecutivamente da tre anni- che siamo a soli cento secondi dall’apocalisse, per cui è necessario ri/prendere coscienza del nostro status di “quelli-che-esistono-ancora”, come scriveva il filosofo Günther Anders. Dunque qualunque azione politica non può non tenere conto, in modo responsabile, della situazione atomica e agire di conseguenza, a cominciare dalla gestione dei conflitti internazionali. E anche se la coscienza diffusa di questa possibilità, presente fino all’abbattimento del Muro di Berlino, è stata man mano rimossa dalle generazioni successive, nelle condizioni date, come diceva Martin Luther King: «O impariamo a vivere come fratelli o periremo insieme come stolti».
Mentre divampa sempre di più la guerra in Ucraina e c’è bisogno di parole sagge e misurate capaci di smilitarizzare le menti e decostruire la ragione bellica, stupisce che un autorevole teologo e filosofo come Vito Mancuso, fine divulgatore di un’etica “progressista”, in riferimento all’invio di armi in Ucraina da parte delle potenze occidentali rimanga nel suo articolo su La stampa del 6 marzo scorso – invece – legato all’antica teoria tomistica della “guerra giusta” (che peraltro ha legittimato secoli di guerre ingiuste) senza tener conto dell’evoluzione teologica contenuta in fondamentali encicliche come la Pacem in terris di papa Giovanni XXIII – “estraneo alla ragione [ritenere] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati” – e Fratelli tutti di papa Francesco – “non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile guerra giusta”. La chiesa cattolica, per fortuna (e lo dico da osservatore esterno) ha fatto enormi passi dottrinali in avanti dai tempi di Tommaso d’Aquino. Avevo sempre pensato che il teologo Mancuso, che stimo, fosse proteso verso il futuro anziché legato al passato.
Quando nel 2020, insieme alla pandemia, ha cominciato a dilagare il paradigma bellico per narrare l’impegno collettivo per salvare le vite, svolgendo una critica alla banalizzazione della realtà che questo comportava ed ai suoi rischi, scrivevo – tra le altre cose – che il continuo far ricorso al paradigma della guerra, allo sforzo bellico di chi è in “trincea” contro il virus, rimanda alla “ri/costruzione di un immaginario positivo della guerra come sforzo collettivo, come mobilitazione patriottica, come esaltazione della potenza militare”. In un Paese nel quale il pudore della guerra, insito nel “ripudio” costituzionale, faceva che sì che – fino a quel momento – veri interventi militari in giro per il pianeta fossero ossimoricamente definiti “missioni di pace”, la guerra – associata ossessivamente all’impegno di chi salva vite umane, invece di ucciderle – era tornata ad essere rivalutata come metafora di valore, anziché di disonore (queste riflessioni oggi si trovano in Disarmare il virus della violenza, 2021). Da lì ad un anno, questo paradigma avrebbe modellato la realtà, inverandosi nella nomina di un generale di corpo d’armata a Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, portando con sé notevoli implicazioni culturali e politiche nella ridefinizione dell’immaginario collettivo, che oggi si stanno manifestando in tutta la loro potenza di fuoco all’interno del passaggio repentino dalla “guerra” al virus al virus della guerra guerreggiata, in cui la “necessità” del coinvolgimento italiano – non in un processo di mediazione e interposizione tra le parti, ma attraverso l’invio di armi a sostegno di una parte (dopo un decennio di vendita all’altra, ndr) – è diffusa ossessivamente nella narrazione pubblica e confermata nelle scelte politiche. Eliminando qualunque possibilità di analisi più complessa dello schierarsi sull’attenti con l’elmetto in testa.
Note a margine dell’inchiesta giornalistica di Presa Diretta su “la dittatura delle armi”
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
Dante Alighieri, Inferno, XXVI canto
L’importante inchiesta giornalistica condotta dallo staff della trasmissione “Presa Diretta” sul tema degli armamenti italiani, mandata in onda su RAI3 lunedì 22 marzo, ha di-mostrato a tutti in prima serata la questione essenziale che organizzazioni come l’Osservatorio sulle spese militari italiane(milex.org/) e la Rete Italiana Pace e Disarmo(retepacedisarmo.org/) documentano in maniera ineccepibile da anni (e che anche su questo blog ribadiamo da sempre): dove arriva quello che il presidente Eisenhower ha definito negli USA il “complesso militare-industriale”, mettendo in guardia dalla sua invadenza, viene condizionata fortemente la stessa democrazia. E chi prova minimamente a fare da argine viene espulso dal sistema, come accaduto all’ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti dell’uranio impoverito Gian Piero Scanu, intervistato dalla brava Giulia Bosetti nella trasmissione e ribadito dallo stesso ex parlamentare democratico su “il manifesto” del 27 marzo (“Il PD subalterno al complesso militare industriale”). Ossia viviamo sotto “la dittatura delle armi”, come opportunamente è stata intitolata l’inchiesta giornalistica
La narrazione suprematista della vita attraverso due viaggi
Tra la vigilia e il giorno di natale sono iniziati due viaggi internazionali, forieri uno di vita e l’altro di morte. Il primo seguito passo passo da tutti i media, il secondo oscenamente ignorato.
Il 24 dicembre da Puurs, la cittadina belga che ospita la sede della Pfizer, sono partiti i tir per la distribuzione europea del vaccino anti-covd. Del percorso dei vaccini, in particolare dopo aver superato il confine del Brennero sappiamo tutto: dall’arrivo a Roma alla ripartenza di ciascuna dose per le diverse città italiane, fino ai nomi dei primi fortunati vaccinati, paese per paese, grazie alla copertura massiccia dell’operazione da parte di tutte le testate giornalistiche internazionali, nazionali e locali.
Il mattino dopo, 25 dicembre, inizia un altro e diverso viaggio: da La Spezia parte la prima delle due fregate FREMM, navi da guerra di ultima generazione costruite da Fincantieri, e consegnata in sordina al governo egiziano due giorni prima, il 23 dicembre, non solo senza alcun passaggio parlamentare, ma senza neanche un comunicato stampa né una testata giornalistica a raccontarlo. La notizia viene diffusa dalla Rete italiana pace e disarmo e solo dopo, timidamente, qualche giornale comincia a riprenderla, fino al 31 dicembre giorno in cui – mentre la fregata arriva ad Alessandria d’Egitto – i genitori di Giulio Regeni dichiarano di aver preparato un esposto-procura contro il governo italiano “per violazione della legge 185/90, che vieta le esportazioni di armi verso Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e l’Egitto rientra tra questi”. A quel punto l’informazione non può essere più taciuta e con l’inizio del nuovo anno esplode.