Delegittimare la violenza. Il principio nonviolenza di Jean Marie Muller

Nei giorni scorsi, il 18 dicembre, è morto a Orléans all’età di 82 anni Jean Marie Muller, filosofo e fondatore del MAN Mouvement pour une Alternative Non-violente. Filosofo di grande spessore che ha impegnato la propria vita in una radicale e serrata critica della violenza ed alla costruzione di un’alternativa teorica e pratica di nonviolenza. Mentre per le note biografiche rimando al ricordo che ne ha fatto Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento, ed al sito del MAN per la bibliografia completa mi pare utile mettere a fuoco l’importante eredità culturale che Muller ci lascia, in particolare attraverso il libro centrale della sua quarantennale produzione culturale – che parte nel1977 con il progetto del MAN (tradotto e pubblicato in italiano a cura del Movimento Nonviolento) Per il socialismo autogestionario: una nonviolenza politica (1977) e giunge al 2017 con La violence juste n’existe pas. Oser la non-violence, Paris, Le Relié – ossia Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace (1995), pubblicato in italiano nel 2004 dalle Edizioni plus, nella traduzione di Enrico Peyretti con la prefazione di Roberto Mancini. Che evoca nel titolo dell’edizione italiana il riferimento a Il principio speranza di Ernst Bloch ed a Il principio responsabilità di Hans Jonas e, come quei testi fondamentali nel pensiero del ‘900, anche questo capace di aprire scenari inediti e generativi di riflessione e azione.

Rompere il cerchio della necessità

Si tratta per Muller di un lavoro di scavo sulle ragioni e i dispositivi che hanno reso la violenza, nelle diverse declinazioni a cominciare da quelle ortodosse, “ovvia per tutti” (Hannah Arent), di un impegno per la sua decostruzione e delegittimazione culturale e per la fondazione filosofica della nonviolenza. Muller, come scrive Roberto Mancini nella prefazione, supera in questa opera i “quattro sbarramenti che segnano i confini del senso della questione per il pensiero comune – 1) è ovvio che la nonviolenza sia desiderabile in teoria; 2) è ovvio che però non sia praticabile; 3) è ovvio che in teoria la violenza sia da condannare; 4) è ovvio che però la violenza sia da praticare nella realtà” – cercando di rompere il cerchio della necessità che inchioda l’umanità alla violenza, che alimenta anno dopo anno ingentissime spese militari, guerre e terrorismi devastanti, per aprire alla libertà di rinnegamento della violenza e di scelta della nonviolenza. Perché “lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza”, ma la rilancia all’infinito, anzi alla fine dell’umanità. Lascio dunque la parola direttamente a Jean Marie Muller, riportando di seguito alcuni estratti dalla Premessa a Il principio nonviolenza (i titoli dei paragrafi sono miei).

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Leggere “Il potere segreto” per partecipare al disvelamento del sistema di violenza

Se c’è una vicenda che descrive perfettamente il funzionamento del sistema di violenza nel quale siamo collettivamente immersi è quella di Julian Assange, “colpevole” di aver disvelato al mondo la verità sulla guerra in Afghanistan ed Iraq e per questo nemico pubblico numero uno del complesso militare-industriale statunitense e dei governi satelliti. La lettura del libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks” (Chiarelettere, 2021) di Stefania Maurizi ne è la prova documentata, da parte di una giornalista d’inchiesta che ha contribuito al disvelamento indagando su tutti i documenti segreti di WikiLeaks.

La prima vittima di ogni guerra è sempre la verità, attraverso la coltre fumogena che viene costruita intorno ad essa per giustificarla, legittimarla, nasconderne crimini ed atrocità all’opinione pubblica esercitando così il livello più profondo di violenza, quello culturale, che sta alla base e sostiene i livelli superiori: la violenza strutturale dell’enorme massa di risorse pubbliche sottratte agli investimenti civili e dirottate – normalmente senza obiezioni rilevanti – su armamenti ed occupazioni militari; la violenza diretta delle centinaia di migliaia di vittime civili, le torture, le abiezioni dell’umanità che sono la quotidianità di ogni guerra, ma che sono – appunto – accuratamente nascoste. Disvelare il livello sottostante e più profondo della violenza della guerra – rivelarne le menzogne, la crudeltà, gli interessi in gioco, l’illegittimità – significa dunque mettere in crisi e rischiare di far crollare l’intero sistema di violenza e il fiume di risorse vi sono deviate: per il complesso militare industriale non c’è colpa più grave. E’ quella di cui si è macchiato Julian Assange attraverso la piattaforma WikiLeaks, mentre la stampa internazionale aveva (ed ha) abdicato al suo ruolo fondamentale, trasformandosi spesso da “cane da guardia” del potere a megafono delle sue menzogne, “come quando, nei mesi precedenti l’invasione dell’Iraq il New York Times aveva pubblicato notizie infondate sui tentativi di Saddam Hussein di procurarsi armi di distruzione di massa. – Scrive Stefania Maurizi – Il “Times” aveva contibuito a una campagna mediatica che aveva reso accettabile anche per l’opinione pubblica politicamente agli antipodi dell’amministrazione Bush, l’invasione dell’Iraq e la guerra devastante che ne seguì: un bagno di sangue di almeno 600.000 morti”

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Quei disarmati facitori di pace (che non vivono in un pub)

Ho letto La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, l’ultimo importante lavoro della storica Anna Bravo (Edizioni Laterza, giugno 2013), proprio nei giorni in cui alla Camera dei Deputati si discuteva sui caccia F-35, si votava quella che è stata definita l’ipocrita mozione della maggioranza di governo e si ascoltavano le deliranti dichiarazioni del ministro della difesa sull’armare la pace per amare la paceE’ stato un salutare antidoto di lucidità. Ed anche un punto riferimento ulteriore, a partire dal quale misurare la lontananza culturale tra chi ha il mandato di gestire i temi fondamentali della vita e della morte (armi e guerre, comunque aggettivate, fatte o risparmiate, di questo trattano) puntando sugli armamenti e i facitori di pace (per dirla, come fa la Bravo, con Alex Langer) cioè tutti coloro che nel Novecento e dopo, in tutte le latitudini, noti o sconosciuti, hanno operato ed operano – dal basso e disarmati – per risparmiare il sangue. E costruiscono storia, perché costruiscono futuro. Continua a leggere

Un suggerimento di lettura al nuovo ministro della Difesa

In un’intervista su l’Unità del primo maggio (pensa, a volte, gli scherzi del calendario…) il neo ministro della Difesa Mario Mauro annuncia le linee guida che intende dare al proprio ministero. Senza sentire minimamente il dovere di spiegare da quali tremende minacce militari sia oggi necessario difendersi a giustificazione di quelle che anche l’inchiesta de l’Espresso di questa settimana definisce “le spese folli della difesa” , il ministro fa immediatamente suo il solito mantra della Difesa che “serve alla pace ed alla convivenza civile, per questo deve essere sempre al top delle prestazioni”, che – tradotto – significa che non si possono tagliare in alcun modo le spese militari. E a domanda specifica sulla possibilità di rivedere almeno l’acquisto dei caccia F-35 (in campagna elettorale ipocritamente disconosciuti da tutti i leader politici) dopo aver premesso che “investire vent’anni in un progetto e poi lasciarlo perdere tutto d’un colpo non ha senso”, riconosce che “bisogna entrare nel merito.” Continua a leggere

Se un Generale dis/vela la verità della guerra

Da buon militare, non fa giri di parole il Generale Fabio Mini e chiama le cose con il loro nome, a cominciare dal titolo di questo pamphlet, che è una domanda secca: Perché siamo così ipocriti sulla guerra? E lo chiede a ragion veduta, da un punto di vista tutt’altro che generico, ma dal suo particolare punto di vista di Generale di corpo d’armata, Capo di stato maggiore del comando Nato per il Sud Europa e Comandante della Kfor, la forza internazionale Nato in Kosovo, che dà alla domanda una netta radicalità.
Cita lo stratega Sun tzu, che già nel primo secolo a.C., scriveva che il tao, l’essenza, della guerra è l’inganno. L’inganno rivolto agli avversari che, al limite, avrebbe potuto consentire di vincere anche senza combattere. Ma l’ipocrisia contro la quale si scaglia il Generale Mini non è questo inganno strategico, ma è quello che da sempre accompagna la preparazione e lo scatenamento delle guerre, fabbricandone i falsi pretesti per nasconderne le reali motivazioni. Perché siamo così ipocriti sulla guerra? A questa domanda il Generale fornisce cinque risposte, altrettanto nette, che danno i titoli ai successivi capitoli del libro: la menzogna, gli affari, l’arte dell’ipocrisia, il gusto della guerra, l’ipocrisia della normalità. Le quali, nell’insieme costituiscono una “operazione verità”, nel significato etimologico di “dis/velamento”, sull’ipocrisia politica e culturale nascosta dietro alla retorica della guerra. Operazione condotta con perizia, dall’interno, da parte di chi le cose le sa, in quanto professionista di primo piano dell’organizzazione preposta alla guerra, l’esercito.

Tra i molti, interessanti, spunti del libro ne raccogliamo uno che ha un incipit, letto e scritto tante volte nei nostri lavori contro la guerra, ma quasi spiazzante se affermato da un Generale: la verità è la prima vittima della guerra. Il Generale Mini dispiega questo incipit ripercorrendo e documentando agilmente le menzogne che hanno accompagnato le guerre, con il loro carico di morti e tragedie.
A cominciare dalle atomiche del 1945 sul Giappone, il 6 agosto ad Hiroshima e il 9 agosto a Nagasaki – che a 5 anni dallo scoppio fecero conteggiare complessivamente 340.000 vittime, con gli effetti delle radiazioni che proseguirono ancora per decenni – le quali non servirono affatto, come è stato ipocritamente ripetuto, “a evitare vittime americane, accelerare la fine della guerra o a risparmiare ulteriori sacrifici ai giapponesi (sic). Non servirono a far “finire” la Seconda guerra mondiale ma a “preparare” la Terza” (p. 9) o, detto ancora più esplicitamente, “l’impiego delle bombe atomiche sul Giappone servì a rendere palese nei confronti di avversari e alleati il nuovo status di superpotenza mondiale assunto dall’America, che dimostrava di essere l’unica ad avere sia la capacità tecnica sia la volontà politica di usare la bomba atomica (p. 15)”. E poi, durante il periodo ipocritamente chiamato di “Guerra Fredda”, mentre le superpotenze si affrontavano direttamente o per procura in tutti gli angoli del pianeta, si continuò con le menzogne: “era falso il pretesto dell’incidente di Tonchino che ha dato l’avvio alla guerra del Vietnam. Come è stato accertato dalla consultazione dei Pentagon Papers del 1964, l’attacco alla nave americana Maddox fu una simulazione degli stessi americani o la versione autoassolutoria di un comandante entrato nel panico alla vista di alcune navi vietnamite” (p.24). Ancora – e veniamo in anni più recenti ed al coinvolgimento diretto in guerra anche dei nostri governi e dei nostri ragazzi – “era falso il massacro di Racak del 1999, che ha fornito il pretesto per la guerra in Kosovo. I quarantacinque corpi di civili trovati morti in un fosso non erano il risultato di un eccidio serbo perpetrato in una notte di tragedia, ma l’esito della raccolta di corpi di ribelli ammazzati nel corso di un mese di combattimenti in un’area molto vasta. Le bande UCK, con la consulenza di agenti segreti stranieri realizzarono la messinscena…L’ambasciatore William Walzer, l’americano che dirigeva la missione di verifica Osce con l’aiuto di una novantina di mercenari, ex agenti federali o della Cia, avallò la tesi dell’eccidio con la complicità di una patologa finlandese…(p. 25). E, in questo osceno dispiegarsi di falsità, ipocritamente raccontate dai governi e ossessivamente rilanciate dai media, era falso anche “il pretesto delle armi di distruzione di massa di Saddam che nel 2003, in piena guerra afgana, ha aperto un secondo conflitto, portando l’America al collasso economico e d’immagine” (p.26).
L’esito logico di questa carrellata di menzogne, e non poteva essere diversamente, è che “la guerra umanitaria” – sulla quale si fonda in Italia il continuo raggiro della Costituzione (ma questo Mini non lo dice) e la lievitazione delle spese militari – “oltre ad essere un ossimoro, è diventata la più grande ipocrisia”(p.32).

Niente di nuovo? Niente di nuovo per noi che queste cose le diciamo da sempre, ma a dirlo – per una volta – non siamo noi.Così come, per una volta non siamo noi a scrivere, ma lo leggiamo sul libro di un Generale, con un altro incipit che non lascia dubbi, che la ragione di queste falsità è che la guerra è un grosso affare: “Se quindi la menzogna risolve il problema di come iniziare la guerra, l’ipocrisia, che ne nasconde i veri scopi, permette di trasformarla in un grosso affare che duri all’infinito e che soddisfi coloro che traggono profitto sia dai combattimenti sia dalle speculazioni post belliche” (p.36). Sono gli affari che decidono dove portare le guerre con la genuflessione di governi, parlamenti e bilanci pubblici e con il relativo circo mediatico che favororisce la costruzione scientifica delle menzogne; sono gli affari che scelgono il prato migliore dove far pascolare i cavalli dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse – guerra, carestia, pestilenza e morte – anzi, aggiunge il ben informato Generale Mini “negli ambienti legati all’apparato militare industriale americano non si accettano i programmi di riduzione delle spese militari e si parla già della “minaccia della pace”. Si può essere sicuri che qualcuno ha già pensato di portare i cavalli a pascolare da qualche altra parte” (p.45). Del resto, anche l’apparato militare industriale italiano, legato a filo doppio a quello americano, non ha accettato alcuna spending review sugli armamenti trovando anche il modo di mantenere – nel pieno della peggiore crisi economica dal dopoguerra – l’acquisto più dispendioso della nostra storia, i famigerati caccia F-35. Ma, chiosa Mini l’ipocrisia italiana è quella dei mediocri,“siamo maestri dell’inganno e della truffa” (p.49).
E non risparmia il Generale neanche le istituzioni internazionali che dettano le regole dell’economia mondiale: “il Fondo monetario internazionale che assoggetta i governi deboli a drastiche misure di spese sociali non ha mai posto vincoli ai bilanci militari e anzi finisce per finanziare vere e proprie guerre, colpi di Stato e massacri. (p. 44)”
Tutto ciò ha portato le opinioni pubbliche all’assuefazione alla guerra e alla sua costante preparazione. Non a caso le spese militari globali hanno raggiunto ormai cifre ben superiori a quelle della Guerra Fredda, ma il tema è stato completamente, e abilmente, rimosso dalla coscienza collettiva e nessuno parla più di disarmo. “Dopo millenni di eccezionalità, la guerra stessa è diventata ipocritamente normale”(p.74), conclude Fabio Mini.

Tra gli altri tanti e importanti spunti di verità che fanno di questo libro una lettura necessaria, non manca un paragrafo su l’ipocrisia della non violenza

Fabio Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra? Un generale della Nato racconta, Chiarelettere editore, maggio 2012 (p.84)

, che è l’unico vero punto debole di questo lavoro. Il Generale Mini liquida in poche parole l’impegno di chi “dice di ispirarsi a Gandhi”, in una maniera del tutto superficiale e contraddittoria, imputando loro la creduloneria nei confronti del “mantra della pace”, ossia quella ipocrisia che “permette di credere che le operazioni di guerra siano “operazioni di pace” o di supporto alla pace e gli interventi militari diventano più accettabili se vengono declinati in tutte le salse inglesi usando il prefisso peace: keeping, making, bulding…”. Mi pare evidente il riferimento ai molti pacifisti della domenica, che partecipano ipocritamente alle “marce della pace” ma poi in Parlamento votano e finanziano (o votano per quelli che votano e finanziano) il menzognero ossimoro delle “missioni umanitarie”e delle “operazioni di pace”. Tra questi, tuttavia – vorrei tranquillizzare il Generale – credo di non intravvedere alcun “gandhiano”.
Del resto Fabio Mini è un Generale, serio e onesto, esperto di guerra, più che di pace e di nonviolenza, ma proprio per questo il suo pamphlet è un utile strumento di verità. E dunque di pace.

Fabio Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra? Un generale della Nato racconta, Chiarelettere editore, maggio 2012 (p.96)