La nonviolenza come equivalente morale della guerra: la “nonmenzogna” sull’insegnamento di Aldo Capitini

(Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico anni ’60 Aldo Capitini)

[Articolo proposto in prima battuta a Il Post, in risposta al pezzo di Marino Sinibaldi del 28 marzo 2022 ivi citato, ma rifiutato]

C’è un tragico precedente storico che ricorda il clima culturale e informativo che stiamo vivendo in queste settimane in Italia, nel quale il giornalismo è spesso vittima della propaganda (come denunciano anche storici corrispondenti di guerra di diverse testate da Toni Capuozzo ad Alberto Negri, tra gli altri): quello dello schiamazzo interventista alla vigilia dell’ingresso in guerra dell’Italia tra il 1914 e il 1915 che – nonostante la contrarietà degli italiani e del Parlamento – godette anche dei massicci finanziamenti che aziende produttrici di armi facevano nei confronti della stampa italiana affinché spingesse l’opinione pubblica verso l’interventismo. Sappiamo come andò a finire: oltre 16 milioni di morti complessive (“inutile strage”, fu chiamata da papa Benedetto XV. E benedetti siano i papi che condanno le guerre), con la generazione, come conseguenza diretta, del fascismo e del nazismo, il cui portato fu la “seconda guerra mondiale” con gli oltre 60 milioni di morti, i campi di sterminio, le bombe nucleari sganciate su Hiroshima e Nagasaki dagli statunitensi e quanto ne è conseguito con la successiva corsa agli armamenti. Oggi ripresa più che mai, insieme allo stillicidio di guerre infinite in giro per il mondo, compreso – di nuovo – il cuore dell’Europa.

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I vivi e i morti. Rileggere Aldo Capitini nel tempo dell’epidemia

L’ingresso quotidiano nelle nostre case, attraverso tutti i media, del bollettino aggiornato delle vittime da covid-19 ha riportato prepotentemente e insistentemente sulla scena pubblica la grande rimossa dalla società dello spettacolo: la morte. Da fatto strettamente privato la morte – quella vera, non la sua rappresentazione abusata nelle fiction – è tornata ad essere un fatto pubblico, esposto, analizzato e commentato. Ma la morte, come insegna Aldo Capitini, uno dei pensatori italiani del ‘900 che maggiormente si è interrogato su questo tema, significa i morti. E la loro compresenza con i vivi. Per questo può essere  utile – proprio in questi giorni – rileggere i densi scritti di Capitini sulla “compresenza dei morti e dei viventi”. Come introduzione ai quali propongo qualche passaggio della mia breve “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” (acquistabile on line sul sito delle edizioni GoWare )

Aldo Capitini è tra i pochi filosofi che hanno pensato a fondo la morte, anzi specificamente i morti. E il loro contributo alla vita, anzi ai vivi. A partire da questo originale punto di osservazione, egli risale alle origini della filosofia occidentale. Secondo Capitini già i filosofi presocratici hanno compiuto una scelta decisiva e condizionante la ricerca successiva: la separazione netta dei morti dai viventi. Mentre il vivente è una presenza, il morto è un individuo del passato. Ciò significa che i morti, pur essendo già stati viventi, quindi presenti, diventano eventi. Eventi passati, che lasciano piccolissime, percettibili o più spesso impercettibili, tracce nella realtà. A sostegno della propria tesi Capitini ricorre alla teoria dello storico delle religioni Walter F. Otto che nell’opera Gli dei della Grecia mette l’accento sulla differente concezione dei morti in ambito arcaico e in ambito omerico.

Nel contesto culturale arcaico la morte riveste un carattere sacro, ed il “morto non è separato dalla comunità dei viventi” – scrive Otto citato da Capitini ne La compresenza dei morti e dei viventi – ma è considerato “più venerabile e potente”, invece in ambito culturale omerico “la sfera della morte ha perso il suo carattere sacro, gli dei olimpici non hanno nulla a che fare con i morti, vien anzi detto espressamente che essi aborriscono l’oscuro regno della morte”. Ed è proprio in questo ambito culturale-religioso che sorgono gli albori della filosofia occidentale: i greci pongono in primo piano l’uomo vivente e le domande che a lui ineriscono. Continua a leggere

Riscoprire Capitini per risvegliarsi dal sonno della ragione

Appunti di lettura in occasione del compleanno del filosofo italiano della nonviolenza (23 dicembre 1899)

Siamo nel pieno di una discesa verso i più profondi livelli di violenza: dalla violenza diretta alla violenza strutturale alla violenza culturale, nella quale – oltre che le guerre – si ri-legittima il razzismo e la de-umanizzazione dell’altro. La logica del nemico è ridiventata tanto il fondamento della politica internazionale che della politica interna. E’ qui, nel punto della notte nel quale più profondo è il sonno della ragione che genera mostri, che ci viene in aiuto Aldo Capitini e ci indica la via del risveglio e della risalita: “la nonviolenza è ricerca, appassionamento e amore all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere”.

La ricerca di Capitini si svolge su tutti i livelli: è un’aggiunta continua di teoria a prassi, di conoscenza e sperimentazione, fondata sul principio della responsabilità personale e sviluppata su campi molteplici: religione, politica, cultura, pedagogia, poesia e organizzazione. Con una produzione culturale ed una visione politica sempre in anticipo sui suoi tempi (ed ancora di più sui nostri), Aldo Capitini non si accontenta di lottare – durante il fascismo, la guerra e la democrazia – contro la violenza dell’epoca a lui presente, ma ha la pretesa rivoluzionaria di scovare e rimuovere gli “impliciti culturali” che stanno a fondamento della violenza di tutti i tempi. La sua è una contestazione radicale, perché scuote alla radice le giustificazioni della violenza, accettate come inevitabili dal senso comune, non messe in discussione dalle rivoluzioni registrate nella storia.

Il filosofo di Perugia non accetta che il fine giustifichi i mezzi, ma ribadisce – con Gandhi – che “il fine sta all’albero come il mezzo sta al seme, tra i due c’è lo stesso inviolabile legame” e su questo fonda una diversa prospettiva politica, anche nei mezzi dell’organizzazione; non accetta il principio che se si vuole la pace bisogna preparare la guerra – paradigma fondante di tutte le dottrine militari – che ribalta nel principio “se vuoi la pace prepara la pace”, sul quale fonda il proprio impegno formativo totale; non accetta inoltre una realtà nella quale sia normale che “il pesce grande mangi il pesce piccolo”, che la prepotenza sia l’ultima parola della storia, ma vuole costruire gli elementi per la liberazione integrale dalla violenza, e questo diventa il suo impegno filosofico. Capitini, dunque, mette in discussione in profondità – e su tutti i piani – l’idea che la sicurezza si fondi sulla capacità di fare violenza. Soltanto a partire da questo scuotimento si può costruire una società, un modello di relazioni ed un modello di difesa fondato sulla nonviolenza.

Questi pochi appunti li uso, di solito, come punto di partenza nelle presentazioni della Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini (edizioni GoWare) scritto e pubblicato quest’anno in occasione del 50° anniversario della sua morte (i cui diritti d’autore vanno al Movimento Nonviolento, fondato da Capitini). Oggi, che è l’anniversario della nascita del filosofo italiano della nonviolenza, la riscoperta della sua opera generativa è più urgente che mai.