Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere e lottare con la nonviolenza. Una risposta a Vittorio Emanuele Parsi

[Storica immagine di un’azione di sabotaggio svolta dai giovanissimi resistenti danesi sotto l’occupazione nazista]

Ho letto su Domani del 12 novembre un articolo del politologo Vittorio Emanuele Parsi dal titolo “Gli ucraini sono pronti a morire per la libertà, e noi italiani?”, la cui argomentazione è finalizzata – se ho bene inteso – a rilegittimare “la guerra come strumento ultimo al quale affidare la difesa della nostra libertà”. Recuperando, a questo scopo, il pensiero binario ottocentesco di Carl Schmitt che fonda la politica sulla dicotomia amico/nemico, che – a suo dire – dovremmo riportare in auge, perché aver rimosso l’hostis,il nemico, dal nostro orizzonte, porterebbe non alla pace ma “alla lotta di tutti contro tutti per il trionfo degli interessi particolari”. E’ l’antica logica del capro espiatorio, ampiamente spiegata da Renè Girard, sulla quale non ho nulla da aggiungere se non che è stata recuperata dal fascismo – “taci, il nemico ti ascolta” – ma è principio caro ad ogni dittatura – o autocrazia o democratura – che risolve il problema del conflitto interno (o, a volte, più banalmente del calo nei sondaggi) nella santa alleanza col popolo contro il comune nemico esterno.

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Conflitti, identità e appartenenze. Un dialogo con Francesco Remotti

Ecco la trascrizione del dialogo pubblico con l’antropologo Francesco Remotti – professore emerito dell’Università di Torino, autore di importanti ricerche in Africa equatoriale e di fondamentali saggi critici sul tema dell’identità – all’interno dall’edizione 2022 del Reggio Film Festival, il cui tema è stato appunto Identity. Tema qui messo fortemente in discussione per poter aprire la strada alle convivenze e risolvere i conflitti.

Pasquale Pugliese: Ho conosciuto il professor Francesco Remotti oltre dieci anni fa a Reggio Emilia per la presentazione del libro L’ossessione identitaria (2010) che facemmo alla Scuola di Pace. Ci ritroviamo oggi a dialogare grazie al Reggio Film Festival, ancora sul tema dell’identità, ma all’interno di una incredibile guerra nel cuore dell’Europa, rispetto alla quale il tema dell’identità e dei suoi usi è, ancora una volta, centrale. Ma facciamo un passo per volta. Proviamo a fare chiarezza sull’idea che il prof. Remotti ha della parola identità – che dà il titolo a questa edizione del Festival cinematografico che ci ospita – parola che appare “nitida, limpida, elegante, pulita”, ma in verità è “avvelenata”… “Perché e in che senso identità è una parola avvelenata?” – si chiede Remotti in quel libro – “Semplicemente perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo.” Ci spieghi, allora, prof. Remotti, perché “l’identità è un grande mito del nostro tempo”?

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Roma 5 novembre 2022, consapevolezza e responsabilità. L’Assemblea itinerante del popolo della pace

[Immagine di Le Monde]

Mi ero preparato con alcune riletture alla partecipazione alla straordinaria manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma. Per esempio, avevo ripreso in mano il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che ricostruisce come tutti coloro che nel 1914 avevano le leve del potere e dell’informazione si muovevano come sonnambuli, apparentemente vigili ma incapaci di vedere che stavano conducendo il mondo nel baratro della “grande guerra”, quella che papa Benedetto XV avrebbe definito “l’inutile strage”. Di cui giusto il giorno precedente alla manifestazione – il 4 novembre – era stata celebrata la fine ancora come una festa della vittoria, anziché un lutto per i 16 milioni di morti e per tutte le tragedie che ne sono conseguite. Un’analoga epidemia di sonnambulismo – o di cecità (“ciechi che, pur vedendo, non vedono”), per citare Josè Saramago – sembra attraversare anche oggi i decisori e i media occidentali rispetto alla guerra in Ucraina, a giudicare dalle scelte fatte e reiterate dai governi e dalle posizioni che sono state ossessivamente veicolate dalla maggior parte dei mezzi di informazione in questi otto mesi di guerra. Almeno nell’asfittica bolla informativa italiana.

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