Etica della responsabilità e forza della nonviolenza per dare una chance al futuro

Non mi considero un nonviolento militante, ma ho acquistato la certezza assoluta che o gli uomini riusciranno a risolvere i loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra.
[Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace]

Nonostante le organizzazioni impegnate per la pace e il disarmo siano al lavoro trecentosessantacinque giorni all’anno con campagne informative e politiche, i “pacifisti” non sono mai stati chiamati tanto in causa nel dibattito pubblico come in questo momento. Ma quasi mai vengono invitati a presentare le loro posizioni: i diversi commentatori ne parlano facendo riferimento ad un’entità astratta, come una massa indistinta sventolante bandiere arcobaleno, della quale sanno poco o nulla per quanto riguarda i riferimenti culturali, le analisi, le ricerche, le azioni, le proposte. Chi vuol parlare di “pacifismo” – per contestare nel merito le posizioni dei pacifisti – dovrebbe almeno conoscere definizioni e questioni, elaborate da decenni di cultura e pratica della nonviolenza, sviluppate e applicate nell’ambito dalla peace research internazionale che ne fondano le proposte. A cominciare dalla conoscenza delle distinzioni semantiche di base, dei principi etici di riferimento, delle norme giuridiche che li recepiscono. Ecco allora alcuni elementi di base.

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Rompere lo schema antiquato della guerra. Aldo Capitini e l’alternativa della nonviolenza

Nella grave crisi che sta attraversando l’Europa, dove un paese – l’Ucraina – è occupato militarmente da una potenza nucleare – la Russia – con una guerra che al momento non vede alcuno sbocco positivo, le democrazie occidentali – dopo vent’anni di sciagurate guerre in Afghanistan ed in Iraq, che non hanno insegnato nulla – non trovano niente di più sensato che fornire armi al governo ucraino, contribuendo all’escalation bellica anziché al cessate il fuoco. In questo scenario mi pare utile condividere qualche riflessione sulla filosofia politica della nonviolenza di Aldo Capitini, che rompe lo schema antiquato della guerra, proponendo una alternativa razionale. C’è bisogno di orizzonti di senso differenti rispetto alla coazione a ripetere del fine che giustifica i mezzi ed al bellicismo dilagante, che sta conducendo al rischio – più reale che mai – dell’apocalisse nucleare. Quello che segue è un brano tratto da alcune pagine del volume Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini (Pasquale Pugliese, GoWare, 2018)

La nonviolenza per Aldo Capitini va nel profondo della realtà attuale, scova e smaschera ciò che – da sempre violenza – non appare più violenza; rimette in discussione l’esistente in tutti i suoi aspetti; apre le chiusure del passato e orienta il mondo verso il nuovo. “Chi commette la violenza, ripete passivamente millenni” – scrive profeticamente – “dire intrepidamente no è far posto ad altro”. Rompere gli schemi, a cominciare da quello più rigido e mostruoso: la guerra.

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La messa al bando dell’intelligenza. Costruzione della pedagogia di guerra contro l’educazione alla complessità

E poi, siamo sinceri, a che servono i ragionamenti?

Bisogna farla finita con questa cosa inutile

[Ignazio Silone, Fontamara]

C’è in corso una guerra vera in Europa, combattuta sul terreno dell’Ucraina occupata militarmente dall’esercito russo, che fa morti, feriti e profughi – come da sempre, ed anche in contemporanea a questa, lo fanno tutte le guerre, anche quelle dimenticate che non tracimano tutti i giorni dagli schermi televisivi e dagli smartphone – e poi c’è la guerra culturale che impazza nel nostro paese ed ha già generato in poche settimane (ma con una incubazione lunga almeno due anni) una regressione di decenni nel clima culturale, informativo e relazionale. Una esaltazione bellicista che tracima anch’essa dai teleschermi e dai social – mai forte, a mia memoria (che dal 1991 in avanti momenti di esaltazione per vere guerre camuffate da “missioni di pace” ne ho viste tante), come in questo momento – che ha un drammatico e straordinario impatto anche sui modelli educativi, costruendo con incredibile velocità una pervasiva pedagogia di guerra che si autoalimenta e cresce giorno dopo giorno. In venticinque anni di lavoro educativo e formativo sul campo se c’è una cosa che ho imparato è che ragazze e ragazzi chiedono agli adulti, prima di tutto, coerenza: apprendono non da quello che gli adulti dicono – siano essi genitori, insegnati ed educatori – ma da quello che gli adulti fanno, dalle loro azioni concrete, che osservano e assorbono, come una spugna. E quando le azioni degli adulti contraddicono le parole, colgono in pieno le contraddizioni e credono alle azioni, non alle parole. Le contraddizioni in cui gli adulti stanno cadendo in questi giorni – tra gli insegnamenti intenzionalmente impartiti singolarmente e quelli effettivamente trasmessi collettivamente – provocando una tremenda reazione a catena, sono infinite.

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Resistenza, armi ed etica nel momento apocalittico. Una risposta a Vito Mancuso

[Carri disarmati, Cristina Donati Meyer, Milano]

Mentre divampa sempre di più la guerra in Ucraina e c’è bisogno di parole sagge e misurate capaci di smilitarizzare le menti e decostruire la ragione bellica, stupisce che un autorevole teologo e filosofo come Vito Mancuso, fine divulgatore di un’etica “progressista”, in riferimento all’invio di armi in Ucraina da parte delle potenze occidentali rimanga nel suo articolo su La stampa del 6 marzo scorso – invece – legato all’antica teoria tomistica della “guerra giusta” (che peraltro ha legittimato secoli di guerre ingiuste) senza tener conto dell’evoluzione teologica contenuta in fondamentali encicliche come la Pacem in terris di papa Giovanni XXIII – “estraneo alla ragione [ritenere] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati” – e Fratelli tutti di papa Francesco – “non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile guerra giusta”. La chiesa cattolica, per fortuna (e lo dico da osservatore esterno) ha fatto enormi passi dottrinali in avanti dai tempi di Tommaso d’Aquino. Avevo sempre pensato che il teologo Mancuso, che stimo, fosse proteso verso il futuro anziché legato al passato.

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Dalla “guerra” al virus al virus della guerra: critica della ragione bellica

Chiunque voglia sinceramente la verità

è sempre spaventosamente forte

Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore

Quando nel 2020, insieme alla pandemia, ha cominciato a dilagare il paradigma bellico per narrare l’impegno collettivo per salvare le vite, svolgendo una critica alla banalizzazione della realtà che questo comportava ed ai suoi rischi, scrivevo – tra le altre cose – che il continuo far ricorso al paradigma della guerra, allo sforzo bellico di chi è in “trincea” contro il virus, rimanda alla “ri/costruzione di un immaginario positivo della guerra come sforzo collettivo, come mobilitazione patriottica, come esaltazione della potenza militare”. In un Paese nel quale il pudore della guerra, insito nel “ripudio” costituzionale, faceva che sì che – fino a quel momento – veri interventi militari in giro per il pianeta fossero ossimoricamente definiti “missioni di pace”, la guerra – associata ossessivamente all’impegno di chi salva vite umane, invece di ucciderle – era tornata ad essere rivalutata come metafora di valore, anziché di disonore (queste riflessioni oggi si trovano in Disarmare il virus della violenza, 2021). Da lì ad un anno, questo paradigma avrebbe modellato la realtà, inverandosi nella nomina di un generale di corpo d’armata a Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, portando con sé notevoli implicazioni culturali e politiche nella ridefinizione dell’immaginario collettivo, che oggi si stanno manifestando in tutta la loro potenza di fuoco all’interno del passaggio repentino dalla “guerra” al virus al virus della guerra guerreggiata, in cui la “necessità” del coinvolgimento italiano – non in un processo di mediazione e interposizione tra le parti, ma attraverso l’invio di armi a sostegno di una parte (dopo un decennio di vendita all’altra, ndr) – è diffusa ossessivamente nella narrazione pubblica e confermata nelle scelte politiche. Eliminando qualunque possibilità di analisi più complessa dello schierarsi sull’attenti con l’elmetto in testa.

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