Smilitarizzare le menti per disarmare il conflitto. La prima cosa da fare contro la guerra in Ucraina

[murales della street artist Laika, apparso in questi giorni a Roma in prossimità delle ambasciate di Russia e Ucraina]

Nessuna delle caste al potere voleva una grande guerra in Europa

nel senso di perseguirla attivamente.

Al contempo esse, sia pure con finalità e interessi diversi,

neppure volevano rinunciare alla guerra, agli armamenti

e alla politica delle minacce come mezzo della politica internazionale,

per questo vi scivolarono dentro”

[Ekkehart Krippendorf, Lo stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza]

Se per comprendere le ragioni di un conflitto è necessario allargare lo sguardo, nello spazio e nel tempo , a maggior ragione quando il conflitto si trasforma colpevolmente in guerra aperta è necessario sottrarsi alla logica perversa dello scontro amico/nemico e assumere un punto di vista più generale e complesso, per cercarne le possibili vie d’uscita. A questo scopo, condannare l’aggressione militare di Vladimir Putin all’Ucraina è necessario, ma non sufficiente. E se a farlo sono quelli che hanno condotto occupazioni militari ventennali in Afghanistan ed Iraq (per tacere delle altre), provocando immani catastrofi umanitarie, non è neanche credibile: sono parte del problema, non della soluzione. Anziché inviare altre armi sul terreno di guerra, come stanno facendo i governi occidentali, bisogna uscire dalla logica bellica sulla quale si fondano tutte le politiche di potenza che hanno portato, come con-cause, a questa incredibile e anacronistica situazione ed entrare nelle ragioni profonde del conflitto, riconoscendo ragioni e torti dei diversi attori in campo, per trovare un punto di mediazione sostenibile per tutti. Sottrarsi alla logica dell’escalation, farsi “costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”, come scriveva Alex Langer, renitenti alla banalità del male della guerra che, ovunque, è già dentro la maggior parte delle menti consentendo agli arsenali di traboccare di armi, alle guerre di moltiplicarsi sul pianeta, ai profitti delle industrie degli armamenti di crescere senza fine. O smilitarizziamo le menti e impariamo a risolvere i conflitti senza violenza – con un lavoro paziente, costante e quotidiano – o la violenza della guerra distruggerà l’umanità, più prima che poi.

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Né un uomo né un soldo per la guerra. Il messaggio di Mario e Fermo, da Reggio Emilia all’Europa di oggi

La guerra che verrà non è la prima.
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente

Bertold Brecht

Mario e Fermo, Mario Baricchi e Fermo Angioletti, il 25 febbraio del 1915 erano ragazzi, diciottenni, reggiani e furono le prime vittime italiane della “grande guerra”, non al fronte, ma a casa, anzi in piazza – in quella piazza che oggi beffardamente si chiama della “vittoria” – di fronte al Teatro Ariosto, dove protestavano contro il comizio interventista di Cesare Battisti, urlando “né un uomo né un soldo per guerra”, uccisi non dalle truppe “nemiche”, ma da quelle “amiche”, cioè dall’esercito italiano che sparò ad altezza d’uomo per disperdere la folla antimilitarista e pacifista. Esecuzione premonitrice delle oltre 3.500 condanne a morte che l’esercito italiano comminerà ai disertori, con processi sommari, tra il 1915 e il 1918.

Non potevano sapere Mario e Fermo che quella guerra – che pochi mesi dopo, il 24 maggio, avrebbe visto, con un colpo di stato di fatto, il reale coinvolgimento dell’Italia – sarebbe diventata la “prima guerra mondiale” e avrebbe provocato oltre 16 milioni di morti complessive (“inutile strage”, fu chiamata da papa Benedetto XV). Che quella guerra avrebbe generato poi, come conseguenza diretta, il fascismo e il nazismo, il cui portato fu la “seconda guerra mondiale” con gli oltre 60 milioni di morti, i campi di sterminio, le bombe nucleari sganciate su Hiroshima e Nagasaki dagli statunitensi e quanto ne è conseguito con la successiva corsa agli armamenti. Oggi ripresa più che mai, insieme allo stillicidio di guerre infinite in giro per il mondo.

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Il coraggio di aver paura. Urgenza di rileggere e divulgare le “Tesi sull’età atomica” di Günther Anders

Kailum Graves, Tsar-Bomba

Di fronte all’indifferenza con la quale stiamo assistendo ad una escalation bellica in Europa tra potenze atomiche, nella speranza che, in fondo, non facciano sul serio, “non possano” fare sul serio (come se le bombe su Hiroshima e Nagasaki non ci fossero mai state), mentre il Bollettino degli scienziati atomici ci avvisa – ormai consecutivamente da tre anni – che siamo a soli cento secondi dall’apocalisse, è necessario ri/prendere coscienza del nostro status di “quelli-che-esistono-ancora”, di vivere cioè – da Hiroshima in avanti – nella precarietà esistenziale, strutturale e globale, dovuta alla possibilità di estinzione del genere umano, attraverso il pigiare di un pulsante, quello delle armi nucleari. La coscienza diffusa di questa possibilità, presente fino all’abbattimento del muro di Berlino – di cui è stata anzi il piccone etico principale grazie all’iniziativa unilaterale di Michail Gorbačëv (i cui meriti storici non sono ancora stati sufficientemente riconosciuti) – è man mano stata rimossa nelle generazioni successive, nonostante la guerra sia tornata ad essere normalmente “la continuazione della politica con altri mezzi” (Carl von Clausewitz); nonostante migliaia di testate nucleari siano puntate contro le teste di tutti più luccicanti e potenti che mai; nonostante il Trattato per la proibizione delle armi nucleari le abbia messe fuorilegge; nonostante – infine – i cinque paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite abbiano recentemente e congiuntamente affermato “che una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai verificarsi”, senza trarne le conseguenze disarmanti.

La rimozione della coscienza del pericolo atomico – e del relativo e necessario impegno per il disarmo – ha portato con sé anche la rimozione dell’opera di uno dei massimi pensatori dello stato dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’apocalisse nucleare: Günther Anders, autore di opere fondamentali per comprendere il nostro precario stare al mondo – da Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki al carteggio con Claude Eatherly, uno dei piloti di Hioroshima, a L’uomo è antiquato – di cui quest’anno cadono i 120 anni dalla nascita e i 30 dalla morte. Tra i suoi scritti fondamentali, urgentemente da rileggere, meditare e divulgare, sono Le tesi sull’età atomica, qui riportate integralmente nella versione italiana edita da Linea d’Ombra (1995) in appendice a Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. Le tesi sull’età atomica sono un testo “improvvisato” di Anders nel 1960 dopo un dibattito sui problemi morali dell’età atomica con gli studenti dell’Università di Berlino, dove sono esposte in maniera limpida ed essenziale le caratteristiche, inedite e inaudite, dell’epoca atomica. Nella quale bisogna trovare “il coraggio di aver paura” perché la paura è segno di consapevolezza ed ha perciò un valore euristico, cioè di strumento di conoscenza della realtà, e “vivificante, poiché invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze” a lottare per il disarmo, ossia per l’impegno fondamentale per tutte e tutti, perché “ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé”.

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