Referendum sul taglio del Parlamento: esercitare la partecipazione consapevole anziché arrendersi alla demagogia

Quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo

s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti,

oltre che le funzioni

Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente

Uno degli aspetti più pervasivi e pericolosi del “populismo” è quello di convincere il “popolo” – considerato come una massa indifferenziata – di scelte e decisioni che in realtà vanno contro gli interessi generali dei cittadini, specie delle classi popolari, identificando capri espiatori semplici (“gli immigrati” e “la casta” vanno per la maggiore) contro i quali scatenare la rabbia in risposta a situazioni complesse, soprattutto in momenti di crisi. E’ quell’atteggiamento politico che fin dall’antica Grecia è stato definito dai filosofi “demagogia”, ossia la corruzione della democrazia. Ora che il populismo si sta facendo strada ovunque nel mondo, il referendum italiano sul taglio del numero dei parlamentari del 20 e 21 settembre è una grande occasione per separare e distinguere tra demagogia e democrazia. Ossia tra populismo e partecipazione consapevole. Continua a leggere

Ri/costruire l’empatia. Per uscire dalla pandemia imparando a stare al mondo

Non puoi davvero capire un’altra persona

fino a quando non consideri le cose dal suo punto di vista,

fino a quando non entri nella sua pelle e non ci cammini dentro

Harper Lee

Il buio oltre la siepe

La decisione post-ferragostana del governo di richiudere le discoteche – dopo un’avventata e fuorviante riapertura – pur fortemente contestata (in verità più dai gestori che dai giovani), così come le altre misure sensate di contenimento del virus, si può inscrivere all’interno di un tentativo – seppur maldestro e per decreto – di ri/costruzione di un filo di empatia sociale, senza la quale non usciremo definitivamente da questa ne dalle altre crisi sistemiche che ci aspettano.

Lo scrivevo già a metà marzo, quando eravamo tutti bloccati in casa ed obbligati al totale distanziamento fisico: “che cosa ci sta insegnando questa epidemia nata in Cina, che ha attraversato l’Asia e l’Europa ed è giunta in America? (…)
Che non serve erigere muri, alzare barriere, tracciare confini, chiudere i porti, perché il pianeta è naturalmente e strutturalmente interconnesso. Irriducibilmente aperto, nonostante le nostre chiusure mentali. Continua a leggere

Senza coscienza. 75 anni dopo Hiroshima e Nagasaki siamo ancora dentro al male assoluto

Su uno dei ponti di Hiroshima c’è un uomo che canta e pizzica le corde di uno strumento. Guardatelo. Dove vi aspettate di trovare il volto, non troverete il volto, ma una cortina: perché non ha più volto. Dove vi aspettate di trovare la mano, non troverete una mano, ma un artiglio d’acciaio: perché non ha più mano. Finché non riusciremo a raggiungere lo scopo per cui ci siamo radunati qui, e non avremo esorcizzato il pericolo che, alla sua prima manifestazione ha portato via duecentomila uomini, quell’automa sarà su quel ponte e canterà la sua canzone. E finché sarà su quel ponte, sarà su tutti i ponti che conducono al nostro futuro comune. Come atto d’accusa, e come messaggero. Riscattiamo quell’uomo dal suo ufficio. Facciamo quanto occorre perché sia possibile dirgli: “Non sei più necessario: puoi lasciare il tuo posto” (Günther Anders. Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasak. 1961)

Lo scorso 23 gennaio – prima che la pandemia da covid-19 esplodesse nella dimensione planetaria che conosciamo – gli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientist portavano a soli 100 secondi dalla mezzanotte nucleare le lancette dell’”Orologio dell’apocalisse” che dal 1947 indicano metaforicamente quanto “tempo” ci distanzia dall’estinzione: mai le lancette sono state così vicine a indicare la catastrofe, neanche nel momento più pericoloso della “corsa agli armamenti” propriamente detta. A 75 anni dalla distruzione di Hiroshima e Nagasaki, l’umanità è ancora sotto scacco di circa 14.000 testate nucleari, enormemente più potenti di quelle che gli USA scaricarono sulle due città giapponesi, provocando oltre duecentomila morti, non per vincere una guerra il cui destino – dopo la resa della Germania nazista – era ormai segnato, ma per posizionarsi geo-strategicamente come potenza nucleare nel dopo guerra, come gli storici hanno ormai ampiamente dimostrato. Continua a leggere