Le nuove liberazioni del tempo presente

Per la nostra generazione che non ha conosciuto direttamente la guerra ed ancor di più per quella dei nostri figli, che l’hanno solo sentita raccontare dai nonni o studiata a scuola, questo periodo di quarantena sociale che ha sospeso da oltre due mesi – tra le altre cose e per la prima volta nella storia della Repubblica – la scuola e l’Università nelle loro modalità tradizionali, rappresenta un momento traumatico di passaggio storico, che segnerà nella memoria personale e collettiva un “prima” e un “dopo”. Per questa ragione, questa Festa della Liberazione – coincidendo temporalmente con la visione, finalmente, della luce in fondo al tunnel dell’epidemia e preparando la fine della costrizione in casa – acquista un significato ulteriore rispetto a quello specifico della liberazione dalla guerra e dal fascismo. Ed anche del tutto nuovo perché, insieme al virus, è necessaria la liberazione da molte di quelle condizioni che sono concausa della tragedia che stiamo attraversando e che con il fascismo hanno molto a che fare.

Vediamone alcune, che si aggiungono alla liberazione dall’ignoranza, dalla paura e dalle armi che annotavo per il 25 aprile dello scorso anno.

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Pandemia come guerra, ossia la banalizzazione della complessità. I dieci errori di un paradigma sbagliato

Chiarire le nozioni,  screditare le parole intrinsecamente vuote,

definire l’uso delle altre attraverso analisi precise,

ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, 

potrebbe preservare delle vite umane

Simone Weil

Non ricominciamo la guerra di Troia

 

Come insegnano i filosofi del linguaggio, noi abitiamo la lingua che parliamo, perché il linguaggio costruisce e definisce gli elementi concettuali e simbolici del mondo in cui viviamo. La narrazione dell’impegno contro la pandemia in corso come una guerra – come fanno abitualmente i media e i governi di ogni Paese coinvolto – non è dunque solo un espediente metaforico ma, per le notevoli implicazioni culturali e politiche che questo racconto porta con sé, per il mondo di significati che costruisce, si configura come un vero e proprio paradigma interpretativo. Ma è il paradigma sbagliato, un errore epistemologico, per almeno dieci ragioni che provo qui ad elencare

1.semplifica ciò che è complesso

La pandemia che il pianeta stra attraversando è la dimostrazione che viviamo nel più complesso dei mondi possibili, nell’orizzonte dell’incertezza globale, in un sistema di sistemi nel quale davvero “il battito d’ali di una farfalla in Brasile provoca un tornado in Texas”, secondo la celeberrima formula del meteorologo Edward Lorenz. Il paradigma della guerra, invece, è il più banale degli schemi, la semplificazione estrema, la certezza assoluta: la riduzione del fenomeno a mera dicotomia di potenza – tra noi e il nemico – che perde di vista l’interconnessione tra le persone e tra le persone e la natura, ossia l’eco-sistema e le sue interazioni. Usare la narrazione sbagliata significa dunque costruire immaginari e narrazioni fallaci, che portano fuori strada e non aiutano a identificare e costruire soluzioni efficaci e durature. Continua a leggere

I vivi e i morti. Rileggere Aldo Capitini nel tempo dell’epidemia

L’ingresso quotidiano nelle nostre case, attraverso tutti i media, del bollettino aggiornato delle vittime da covid-19 ha riportato prepotentemente e insistentemente sulla scena pubblica la grande rimossa dalla società dello spettacolo: la morte. Da fatto strettamente privato la morte – quella vera, non la sua rappresentazione abusata nelle fiction – è tornata ad essere un fatto pubblico, esposto, analizzato e commentato. Ma la morte, come insegna Aldo Capitini, uno dei pensatori italiani del ‘900 che maggiormente si è interrogato su questo tema, significa i morti. E la loro compresenza con i vivi. Per questo può essere  utile – proprio in questi giorni – rileggere i densi scritti di Capitini sulla “compresenza dei morti e dei viventi”. Come introduzione ai quali propongo qualche passaggio della mia breve “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” (acquistabile on line sul sito delle edizioni GoWare )

Aldo Capitini è tra i pochi filosofi che hanno pensato a fondo la morte, anzi specificamente i morti. E il loro contributo alla vita, anzi ai vivi. A partire da questo originale punto di osservazione, egli risale alle origini della filosofia occidentale. Secondo Capitini già i filosofi presocratici hanno compiuto una scelta decisiva e condizionante la ricerca successiva: la separazione netta dei morti dai viventi. Mentre il vivente è una presenza, il morto è un individuo del passato. Ciò significa che i morti, pur essendo già stati viventi, quindi presenti, diventano eventi. Eventi passati, che lasciano piccolissime, percettibili o più spesso impercettibili, tracce nella realtà. A sostegno della propria tesi Capitini ricorre alla teoria dello storico delle religioni Walter F. Otto che nell’opera Gli dei della Grecia mette l’accento sulla differente concezione dei morti in ambito arcaico e in ambito omerico.

Nel contesto culturale arcaico la morte riveste un carattere sacro, ed il “morto non è separato dalla comunità dei viventi” – scrive Otto citato da Capitini ne La compresenza dei morti e dei viventi – ma è considerato “più venerabile e potente”, invece in ambito culturale omerico “la sfera della morte ha perso il suo carattere sacro, gli dei olimpici non hanno nulla a che fare con i morti, vien anzi detto espressamente che essi aborriscono l’oscuro regno della morte”. Ed è proprio in questo ambito culturale-religioso che sorgono gli albori della filosofia occidentale: i greci pongono in primo piano l’uomo vivente e le domande che a lui ineriscono. Continua a leggere