coerenze intellettuali

Un governo che, mentre conferma i finanziamenti astronomici per le spese militari e per l’acquisto di ulteriori mostruosi sistemi d’arma, annuncia di non poter più finanziare la sanità pubblica, dimostra la propria coerenza intellettuale: l’accanimento, non terapeutico, contro le vittime. Le persone colpite dalle guerre e dalle malattie.

Risulta che anche i candidati alle “secondarie” del PD, Bersani e Renzi, sostengano coerentemente le scelte del governo.

 

Domani andrò a votare. Nichi Vendola

Lo dico subito: non sono tra quelli che credono che lo strumento delle primarie rappresenti un surplus di democrazia, penso anzi che favorisca un’idea leaderistica e delegante della politica, oltre ad essere poco coerente con il modello organizzativo del nostro Stato, parlamentare e non presidenziale.
Aggiungo che non considero l’esercizio del voto l’unico strumento di partecipazione, anzi ritengo che le forme della partecipazione debbano moltiplicarsi e agire ben oltre, prima e dopo, le scadenze elettorali per rinforzare il “potere senza governo” – secondo l’insegnamento di Aldo Capitini – della società civile, capace anche di orientare dal basso l’attività dei partiti.
Infine, non mi sento pienamente rappresentato dai 10 punti della Carta d’Intenti per l’Italia Bene Comune, sottoscritta dai Segretari dei tre partiti che hanno indetto le elezioni primarie. Soprattutto perché prive di un punto fondamentale – corrispondente all’art. 11, “principio fondamentale” della Costituzione italiana – relativo al “ripudio della guerra”, cioè oggi alla drastica riduzione delle spese militari, alla rinuncia ai caccia F-35, al ritiro delle truppe d’occupazione italiane dall’Afghanistan, nel rispetto – appunto – del dettato costituzionale.
Eppure, nonostante ciò (e non è poco) ho deciso che domani andrò a votare. Per un solo motivo, perché mi convincono le proposte programmatiche di uno dei cinque candidati: Nichi Vendola. Se non ci fossero, me ne starei a casa. Ma ci sono e sono nettamente differenti e definite, in particolare, proprio sul punto mancante nella Carta d’Intenti. Un dato di realtà che non posso ignorare.
Nichi Vendola è l’unico tra i destinatari della lettera aperta che il Movimento Nonviolento ha inviato ai Segretari del centro-sinistra ad aver esplicitamente risposto dicendosi d’accordo su tutte le richieste, indicando anzi nella ”opzione nonviolenta il fondamento della mission internazionale del nostro Paese.” Aggiungendo che “non ci sono alternative. Vogliamo essere protagonisti di nuovi strumenti per raggiungere l’obiettivo della pace tra i popoli: dal sostegno attivo alla prevenzione dei conflitti alle mediazioni politico-diplomatiche, fino all’interposizione nonviolenta dei corpi civili di pace” ( intervista integrale).
Programma che trova riscontro nel quarto documento programmatico per “Vendola presidente” – Il risiko dei potenti, oppure nonviolenza, pace e solidarietà internazionale – nel quale Nichi Vendola  assume un “principio di responsabilità” di fronte alle tragedie del nostro tempo attraverso “il caratterizzare le proprie forme di partecipazione a iniziative autorizzate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sostenendo la diplomazia popolare e nonviolenta”. Dentro questo quadro c’è un impegno, tra le altre cose, “per il rientro immediato delle truppe dall’Afghanistan” e quello per la “riduzione drastica delle spese militari nel nostro paese e di quelle a livello internazionale a partire dalla cancellazione del programma per la costruzione del cacciabombardiere di ultima generazione Joint Strike Fighter”. Sul piano del disarmo nucleare, inoltre, il documento programmatico sostiene che “l’Italia seguirà l’esempio di altri paesi NATO che hanno deciso di non ospitare sul loro territorio nazionale ordigni nucleari tattici USA”, ritenendo “urgente aprire un processo di ridiscussione della presenza di basi militari statunitensi sul territorio nazionale e di revisione partecipata del sistema delle servitù militari”. Ancora, Vendola s’impegna a “ridurre drasticamente le spese del comparto difesa e di riconvertire l’industria bellica”, dotando il Paese “di strumenti incisivi per il controllo, regolamentazione e monitoraggio del commercio di armi, sulla base della legge 185/90”, negli anni depotenziata. Infine annuncia “la creazione di un’Agenzia Euromediterranea per la pace e la solidarietà internazionale che possa operare in supporto a processi di peace-building, mediazione e interposizione nonviolenta in zone di conflitto, prevenzione dei conflitti e promozione e tutela dei diritti umani delle popolazioni civili”.
Insomma, un programma impegnativo e ampiamente condivisibile, scritto nero su bianco per la prima volta – a mia memoria – sull’agenda politica di un potenziale candidato alla presidenza del consiglio. Certo, perché questi impegni entrino anche nel programma del futuro governo bisognerà convincere gli alleati sottoscrittori della Carta d’Intenti, lontanissimi da queste affermazioni e dalla cultura di cui sono espressione – e delle quali non a caso nella Carta d’Intenti non c’è traccia – ma la capacità di persuasione passa anche attraverso la quantità di voti che Vendola avrà alle elezioni primarie. Per questo, domani andrò a votare.
Poi, da lunedì, decideremo il da farsi.

Ma io che cosa posso fare?

La domanda da porsi di fronte alle guerre, a Gaza e ovunque

Domenica 18 novembre, il giorno peggiore della strage degli innocenti bambini di Gaza, ero a Peschiera del Garda con alcuni degli obiettori di coscienza che fino al 1972 – anno di approvazione della legge che riconosceva per la prima volta la “concessione” dell’obiezione di coscienza – sono stati incarcerati nel tetro carcere militare. Con loro abbiamo visitato questa famigerata fortezza, che ha visto durante l’occupazione nazi-fascista passare i prigionieri antifascisti e nei primi decenni della Repubblica i prigionieri per la pace.
Il loro racconto, ancora lucido e appassionato, mi ha confermato questa doppia consapevolezza:
1. l’impegno per la pace non è compito di qualcun altro, ma riguarda la scelta personale di ognuno di noi. Ha a che fare con il coraggio con cui ciascuno esercita il proprio potere, che è sempre maggiore di quello che si suppone di avere, assumendosene fino in fondo la piena responsabilità.
2. l’impegno costruttivo per la pace non è un elemento accessorio, che si può prendere in considerazione solo come protesta transitoria alle guerre volute da altri – per poi passare a questioni più contingenti appena non se ne senta più l’eco – ma è una costruzione continua e di lunga durata, che cresce per aggiunte successive, a partire da ciò che ciascuno direttamente può fare. Sempre e dovunque si trovi ad operare.
Eppure in molti, nell’epoca di internet e dei social network, si ricordano di Gaza, della Siria, del Congo, dell’Afghanistan o delle molte altre guerre dimenticate nel mondo, solo quando, e se, i media – social o capital – ci sbattono in faccia i corpi martoriati di vittime straziate, ma se ne dimenticano appena quei corpi spariscono. E con essi l’indignazione, pronta ad andare alla deriva, inseguendo l’ultimo twit indignato, l’ultimo appello anticasta (che, guarda caso, dimentica sempre la casta militare) o l’ultima campagna mediatica di rottamazione.
Eppure, quando Ban Ki Moon, Segretario generale delle Nazioni Unite, denuncia l’impossibilità di agire, anche per far rispettare le risoluzioni, con un bilancio economico dell’ONU che, per un anno di attività, equivale alla metà di quanto si spende in un solo giorno nel pianeta per le spese militari, questo appello passa pressoché sotto il silenzio di tutti. Quando i ricercatori del SIPRI di Stoccolma ci avvertono, ormai da anni, che le spese militari globali hanno superato di gran lunga quelle del picco della cosiddetta “corsa agli armamenti” dell’epoca della “guerra fredda” – da tempo impallidita rispetto ai 1.740 miliardi di dollari di spese attuali – quasi nessuno ne pretende dal proprio governo, che magari sostiene in parlamento, la riconversione in spese civili e sociali, contro la crisi globale. Quando i pacifisti e i nonviolenti italiani denunciano gli affari di guerra, nei quali lo stesso governo italiano è implicato, attraverso il “gioiello di Stato” Finmeccanica, che fa affari sul sangue delle vittime con tutti gli Stati in guerra, a cominciare proprio dal governo israeliano, come denunciato per tempo dall’inchiesta del giornalista Antonio Mazzeo (http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/2012/11/incursori-della-marina-per-rafforzare-i.html) – “a febbraio, il governo di Israele ha ufficializzato l’accordo preliminare per l’acquisto di 30 caccia-addestratori M-346 “Master”di Alenia Aermacchi(Finmeccanica). I velivoli saranno assegnati alle Tigri volanti del 102° squadrone dell’aeronautica militare; oltre alla formazione dei piloti e al supporto alla guerra elettronica, essi potranno essere utilizzati per attacchi al suolo con bombe e missili aria-terra o antinave” – tutto questo non entra nelle agende della politica, nelle Carte d’intenti sottoscritte da chi si candida a governare, come non entra nei nei talk show del dopo cena, che non a caso si chiamano così, “spettacolo di parole”.
Allora, la domanda che ciascuno di noi può porsi, al di là dell’indignazione del momento, è chiedersi “che cosa posso fare” – personalmente e tutti i giorni – nel mio partito, nella mia associazione, nella mia parrocchia, nel giornale per cui scrivo, nella scuola e nell’università…, perché l’impegno per la pace non sia occasionale, ma sia continuativo e strategico, contro la preparazione delle guerre, per il disarmo generale, per la costruzione di strumenti di risoluzione dei conflitti internazionali che non prevedano l’uso delle armi, per la riconversione dell’industria bellica, per il rispetto della Costituzione italiana e della Carta delle nazioni unite, per il diritto alla pace come bene comune? Insomma, che cosa posso fare, qui ed ora, contro le guerre e la loro continua preparazione?
E’ questa la domanda che si fanno i giovanissimi obiettori di coscienza israeliani che – in uno dei Paesi più militaristi del mondo – rifiutano il pesante obbligo militare, che li porterebbe ad essere complici dell’oppressione palestinese, e finiscono a marcire per anni nelle prigioni dello Stato, spesso biasimati e considerati pazzi dai loro stessi amici e parenti. Com’è accaduto, fino a 40 anni fa, agli obiettori di coscienza italiani, i quali per affermare il diritto all’obiezione di coscienza ed al servizio civile, erano imprigionati e vessati, nel corpo e nell’animo.
E’ questa la domanda che dovremmo porci tutti, oggi, per contribuire ad archiviare definitivamente la barbarie della guerra e la sua lucrosa e dannosa preparazione, che ci riguarda direttamente, e non retoricamente, anche se avviene a Gaza, o in Congo, o in Afghanistan o in Siria. Per affermare il diritto al disarmo e alla difesa civile e sociale, non armata e nonviolenta, della nostra Patria e la costruzione di un ordine internazionale fondato sulla capacità di intervenire nei conflitti con la forza della nonviolenza e con i Corpi civili di pace. Temi che quasi nessuno ha all’ordine del giorno delle sue priorità politiche. Eppure corrispondenti ai principi fondamentali della Costituzione repubblicana, che non prevede uno Stato armato fino ai denti e spacciatore di armi per le guerre proprie, ma anche altrui, e dunque complice – nel nostro nome – di stragi e massacri.
Proviamo a dare – ciascuno di noi – una risposta onesta e convincente a questa domanda, prima che le immagini siano oscurate e l’indignazione pure.

I diritti camminano solo sulle gambe di chi decide di esercitarli

Che cosa rimane della visita di oggi, con il Movimento Nonviolento, alla tetra struttura carceraria militare – per fortuna ormai dismessa – di Peschiera del Garda, prigione fino al 1972 degli obiettori di coscienza al servizio militare?
La consapevolezza, ancora più nitida, che l’impegno per la pace non è compito di qualcun altro, ma riguarda la scelta personale di ognuno di noi. Ha a che fare con il coraggio con cui ciascuno esercita il proprio potere, che è sempre maggiore di quello che si suppone di avere, assumendosene fino in fondo la piena responsabilità.
Ieri per affermare il diritto all’obiezione di coscienza ed al servizio civile, con le lotte di centinaia di giovanissimi obiettori imprigionati e vessati, nel corpo e nell’animo.
Oggi per archiviare definitivamente la barbarie della guerra e la sua lucrosa e dannosa preparazione, e per affermare il diritto al disarmo e alla difesa civile e sociale, non armata e nonviolenta, della Patria. L’unica difesa necessaria. L’unica coerente con i principi fondamentali della Costituzione repubblicana.
I diritti camminano solo sulle gambe di chi decide di esercitarli.

Le forze del disordine

In un Paese democratico, nel quale dai palazzi delle Istituzioni cecchini sparassero candelotti lacrimogeni contro cittadini inermi, il capo della polizia avrebbe già rassegnato le dimissioni e il ministro competente avrebbe chiesto scusa al Parlamento ed ai cittadini. Il capo del governo, dal canto suo, oltre a punire rapidamente e severamente gli autori di quello e degli altri gesti violenti delle forze dell’ordine, avrebbe annunciato anche una rapida riorganizzazione di queste forze, attraverso l’avvio di programmi di formazione alla gestione nonviolenta dei conflitti di piazza. Altrimenti, quel Paese sarebbe già meno democratico.
Ma il nostro Paese, prima e dopo Genova 2001, è ormai rassegnato ad una democrazia minore e non coglie la gravità di quanto accaduto. Dopo le grida del momento, tornerà a convivere con le forze del disordine. E qualcuno sarà anche promosso.

un altro pantheon è possibile

Non so se irritarmi o rallegrarmi perché nessuno dei personaggi presenti nel mio pantheon personale è entrato a far parte del pantheon dei candidati alle primarie del centro-sinistra.
Non Gandhi ne Aldo Capitini, non don Milani ne Danilo Dolci, non Alex Langer ne Sandro Pertini, non Peppino Impastato ne Martin Luther King, non Hannah Arendt ne Simone Weil, non Leone Tostoj ne Ivan Illich…con tutto il rispetto per Papa Giovanni e Carlo Maria Martini, un altro pantheon è possibile. Un’altra idea di politica è necessaria.



Pier Cesare Bori: lettera a Tolstoj

Non ho conosciuto di persona Pier Cesare Bori, di cui ieri si sono svolti i funerali bolognesi, ma è anche attraverso il suo instancabile approfondimento dell’opera tolstojana, che anch’io – divoratore in adolescenza dei classici russi – ho potuto conoscere il Tolstoj della conversione nonviolenta. Naturalmente Pier Cesare Bori è stato ed ha fatto molto di più. Per me è stato importante già solo questo.

Per salutarlo, voglio pubblicare questa lettera a Tolstoj scritta da Bori il 15 dicembre 2010.

Ciao Pier Cesare.

 

Caro Lev Nikolaevic, 

gli amici,   nel titolo dell’incontro che abbiamo fatto per ricordarti, hanno voluto chiamarti profeta,  “profeta di nonviolenza”. Non credo che ti piaccia essere chiamato profeta, ma un poco lo sei stato. Hai visto molte cose.  Quando fu ucciso  Alessandro II, nel 1881, hai implorato il figlio di concedere la grazia ai terroristi attentatori. Le tue parole ancora commuovono chi ha cuore: “Maestà, imperatore, io che sono una nullità, uomo per nulla degno, fragile, malvagio…   Una parola solamente di perdono e di carità cristiana…può sopprimere quel male che consuma la Russia…” . La lettera forse non fu nemmeno aperta,  la sequenza di attentati e di condanne continuò, nel 1887 anche  il fratello  di Vl. Ilic Uljanov fu impiccato per una attentato a Alessandro III, e questo fatto segnò per sempre Lenin. 

Hai visto con spavento il montare degli imperialismi e dei nazionalismi. Hai visto la fame e l’ignoranza delle moltitudini. Gridasti inascoltato – alla vigilia di quella guerra che si può dire durò sino al 1945 –  che il carro delle nazioni europee stava per ribaltare. Hai visto la corruzione e l’asservimento delle religioni – perfino del buddhismo  – e li denunciasti. Hai visto la miseria della droga, della lotta fra i sessi e fra le generazioni, hai visto, hai parlato con forza …Non avesti il premio Nobel e la tua chiesa ti escluse.

Siccome la forza, anche profetica,  è pur sempre forza, molti oggi trovano più vicine e persuasive e gentili le tue parole come scrittore dei grandi romanzi e racconti. Sono belli,  ma dimenticano che hai dedicato molti libri a riflettere direttamente sul mondo, su Dio, sulla vita e sulla morte e non sanno che questi libri sono indispensabili per capirti anche come scrittore; per capire perché hai messo una certa scritta biblica all’inizio di Anna Karenina o perché dici che Ivan Ilic vede alla fine una certa luce o perché la violenza sia per te il contrario del Regno di Dio. 

Alcuni pensano che la nonviolenza sia una tecnica per risolvere i conflitti senza armi. Ma per te era una scelta metafisica: era nientedimeno che il passaggio dalla menzogna alla verità, dalla morte alla vitae quindi anche dalla guerra alla pace. Tu hai detto che è  possibile arrivare già ora a una esistenza vera e piena e totale  e senza fine, se si risveglia in noi la consapevolezza che «la vita si manifesta sì nel tempo e nello spazio, ma questo è soltanto il suo manifestarsi» (Della vita, 1886).  Hai spiegato che a questa consapevolezza si giunge non con le parole, ma  attraverso una porta stretta: un atto di sottomissione al principio che la vita si trova solo perdendola. Il non rispondere all’offesa era per te  il principale di  questi gesti, cui se ne accompagnano tanti altri cui le grandi tradizioni spirituali ci invitano, insieme con una promessa di quella vera felicità che Gesù di Nazaret chiamava “beatitudine”.

In questo senso tu sei stato piuttosto che un profeta,  un maestro che “tramanda, non fabbrica” (Confucio, che tu amavi): volevi trasmettere il nucleo delle diverse esperienze spirituali dell’umanità, volevi invitare ciascuno a riconoscere questo nucleo nella propria tradizione (come hai fatto con Gandhi). In mille modi diversi questo nucleo può essere formulato. A te piaceva quello della lettera di Giovanni: “come si fa a dire di amare Dio che non si vede, se non si ama il fratello, che si vede?”.

Negli ultimi dieci anni ti dedicasti a preparare libri di lettura che raccoglievano la tradizione sapienziale dei popoli. Tu stesso usavi il tuo  Ciclo di lettura  e te lo facevi leggere da tua figlia negli ultimi giorni di malattia nella stazione di Astapovo. Leggeste il 5 novembre, forse il 6, il 7 il tuo corpo morì. La pagina del 7 novembre finiva, e finisce così: “Noi poniamo inutilmente la domanda, che cosa avviene dopo la morte? perché parlando del futuro, parliamo del tempo, ma morendo, usciamo dal tempo”. Ed è questa la ragione per cui sappiamo, Lev Nikolaevic, che tu riceverai questa lettera che ti abbiamo scritto, con tanto affetto.

Roma, 15 dicembre 2010

Pier Cesare e i partecipanti all’incontro

Un 4 novembre dedicato alla pace e al disarmo

(Il 4 novembre dell’anno scorso facevo circolare queste note. Non sono ancora inattuali)

 

per onorare davvero la memoria dei caduti in tutte le guerre

per avviare un nuovo paradigma di civiltà e umanità

ferocia e tecnologia

Le oscene immagini dell’epilogo della guerra in Libia – che sono rimbalzate fino alla nausea nel circo mediatico, banalizzandone lo scempio, mentre sono oscurate regolarmente le “ordinarie” immagini di tutte le guerre, che potrebbero far riflettere sull’oscenità della guerra – fanno scrivere ad Adriano Sofri, su “la Repubblica” del 22 ottobre 2011 (“Kalashnikov e telefonini lo scempio del branco”), che “l’uomo è antiquato, o è pronto a ridiventarlo” anzi, continua più avanti, “gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell’Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini”. La guerra e la sua persistente legittimazione politica e culturale tengono l’umanità ancorata al peggio di sè. Abbiamo fatto un salto tecnologico, ma nessun salto di civiltà; al contrario l’applicazione della tecnologia alla guerra ha fatto compiere all’umanità un balzo all’indietro. La guerra risponde alla logica del fine da raggingere che giustifica l’impiego di qualunque mezzo. Da quando il mezzo è stato potenziato enormemente dagli sviluppi tecnologici, è esplosa la capacità distruttiva e ridimensionato lo spazio di umanità.

l’imprinting al Novecento

La svolta tecnologica nella guerra è avvenuta in quella che ha aperto il Novecento, dandogli l’imprinting: la “Grande guerra”, chiamata così non solo per la sua dimensione intercontinentale ma sopratutto per la capacità distruttiva su larga scala che è stata messa in campo dagli eserciti. Quella guerra provocò la repentina riconversione delle moderne invenzioni tecniche in strumenti bellici, finalizzati al terrore di massa. Le nuove fabbriche fordiste, chimiche, meccaniche, areonautiche e navali, furono rapidamente convertite al servizio delle armi chimiche, dei carri armati, degli aerei da combattimento, dei sottomarini da guerra, moltiplicando la produzione in tutti i settori. La società e l’economia intera vennero coinvolte nello sforzo bellico e la guerra diventò, per la prima volta, di massa e totale. Un salto di qualità distruttiva definitivo, con 16 milioni di morti complessivi in quattro anni, che da allora in poi sarebbe stato sempre più amplificato, in un’escalation senza fine di armamenti, morte e distruzione. Fino ai campi di sterminio, fino ad Hiroshima e Nagasaki, e poi all’equilibrio del terrore, al napalm, all’uranio impoverito, alle armi battereologiche, ai cacciabombardieri nucleari, ai droni telecomandati…In un vortice di violenza presente sia quando le armi iper-tecnologiche vengono usate ai quattro angoli del pianeta, sia quando si accumulano e praparano le guerre, sottraendo ingenti risorse alle spese sociali e colonizzando la cultura profonda che non pre/vede e rende possibili le alternative.

uomini nel fango

E l’umanità? Mentre si fanno strada le armi di distruzione di massa, nella “Grande guerra” l’umanità è rintanata nelle trincee contrapposte, tra topi, cadaveri, neve e fango, dove sopravvivono e muoiono i giovani e giovanissimi coscritti (dello “stesso medesimo umore, ma la divisa di un altro colore”, cantava De Andrè), agli ordini di ufficiali spesso esaltati. “Uomini contro”, li definì il celebre film di Francesco Rosi, che, qualche volta, si riconobbero nella loro rispettiva umanità e decisero di affermarla, disobbedendo agli ordini, rifiutando di sparare. Lo racconta, tra gli altri, Emilio Lussu in “Un anno sull’altipiano” (libro da cui fu tratto il film di Rosi):

“Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, cosi viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l’apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffe’, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri stessi compagni. (…)Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volonta’, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo!”

militarizzazione di una generazione

Ma queste esitazioni dove emergeva l’umanità vennero severamente punite. Le renitenze e le diserzioni per non andare a morire nelle trincee d’Europa, gli ammutinamenti e le insubordinazioni di massa dei soldati sfiniti, le automutilazioni per trovare un temporaneo riparo nelle retrovie, le tregue spontanee dal basso – come la “piccola pace nella Grande guerra” che fu realizzata naturalmente dai soldati lungo tutto il fronte occidentale, per alcuni giorni, intorno al Natale del 1914, con l’intonazione di canti natalizi di pace nelle diverse lingue e scambi di poveri doni, incontrandosi nella terra di nessuno tra le due trincee (cfr Michael Jurgs “La piccola pace nella Grande guerra. Fronte occidentale senza armi 1914: un Natale senza armi”) – furono disubbidienze e obiezioni popolari alla logica della guerra. Per questo, orrore nell’orrore, nella “Grande guerra” si applicò per la prima volta su amplissima scala anche la decimazione, all’interno dei rispettivi fronti, di coloro che esitavano a dimenticare la propria umanità per diventare cieche e sorde macchine di morte. Intanto, la propaganda, condotta per la prima volta in maniera massificata sul “fronte interno” di ciascuno Stato, giustificava tutto ciò per i superiori interessi nazionalistici.

In Europa una generazione subì un processo di militarizzazione forzata e ideologica. La conseguenza principale saranno i fascismi e il nazismo che condurranno il mondo ad una nuova, ed ancora più spaventosa, catastrofe mondiale.

cambiare paradigma culturale

Oggi, nonostante il passaggio di millennio, siamo ancora pienamente dentro quel Novecento, inaugurato e connotato definitivamente dalla Grande guerra; dentro al paradigma del fine che giustifica mezzi, sempre più scientificamente distruttivi. Nonostante la fine di due guerrre mondiali, la conclusione della “Guerra fredda”, il crollo dei regimi totalitari, nonostante tutto ciò, le spese militari – per l’acquisto, il mantenimento e l’uso di ipertecnologie di morte – sono avviluppate in una escalation continua, su scala planetaria e nazionale, che non ha eguali in nessuna epoca storica. Il riarmo è in continua ascesa, tanto sul piano specificamente bellico quanto sui piani politico e culturale. Non a caso il nostro Paese è impegnato, consecutivamente da vent’anni, in guerre su molti fronti internazionali, chiamate “missioni di pace” nella “neolingua” orwelliana comunemente usata per aggirare la Costituzione, nella quale i padri costituenti avevano usato coscientemente la forza del verbo “ripudiare” proprio e solo in riferimento all’oscenità della guerra, in quanto “mezzo” per la risoluzione dei conflitti.

Siamo talmente dentro al tragico Novecento che – piuttosto che puntare sul disarmo militare e sulla messa a punto e sperimentazione di “mezzi” alternativi alla guerra per la “risoluzione delle controversie internazionali”, proiettandoci così in un’altro paradigma culturale e politico, quello del fine che si realizza già nel mezzo che si usa, come indicato dalla Costituzione – si continua a “festeggiare” il 4 novembre, la fine della “Grande guerra” come “Festa della Forze Armate”, ossia si festeggia proprio il “mezzo” che ci lega irrimediabilmente alla guerra.

un 4 novembre per il disarmo

Il ricordo e il lutto per le vittime delle guerre meritano un giorno di memoria e di raccoglimento, non di festa. Un modo affinchè il loro sacrificio sia di vero monito alle nuove generazioni è dedicare quel giorno alla riflessione sulla tragedia di tutte le guerre, all’impegno per il disarmo e alla promozione delle alternative possibili. Fra qualche anno saranno cento gli anni che ci separano dall’avvio della “Grande guerra”: se nel frattempo saremo riusciti a trasformare il 4 novembre in una giornata dedicata alla pace ed al disarmo, piuttosto che all’esercito, sarebbe un piccolo, ma importante, segnale che il secolo delle guerre sta finalmente passando. E che stiamo cominciando a costruire, almeno in Italia, un cambio di paradigma culturale per un salto di civiltà e di umanità.

(4 novembre 2011)

4 novembre: non festa ma lutto, non festa ma impegno

L’Italia ripudia la guerra, anche il 4 novembre

Il 4 novembre non è un giorno di festa: è un giorno di lutto per le vittime delle guerre e d’impegno per il disarmo. Non festa ma lutto, perché si ricorda la fine di una “inutile strage”, come Benedetto XV definì la prima guerra mondiale, e non si può non ricordare che tutte le guerre sono “inutili stragi” e tutti gli eserciti ne sono gli strumenti.
Non festa ma impegno, perché per ricordare davvero – e non retoricamente e ipocritamente – le vittime delle guerre l’unico modo è “ripudiare la guerra” e costruire la pace, attraverso la via realistica del disarmo.

Eppure il 4 novembre – unica celebrazione traghettata dal fascismo alla Repubblica – si continuano a “festeggiare” le forze armate, cioé gli strumenti di guerra. Ed è una festa che si prolunga tutto l’anno: nelle varie manovre finanziarie, qualunque siano i governi in carica, si continuano a dilapidare preziose risorse in spese militari e di armamenti (23 miliardi nell’ultimo anno), si continua a finanziare l’acquisto di terribili strumenti d’attacco come i caccia f-35 (15 miliardi previsti) ed a condurre operazioni di guerra come l’occupazione militare in Afghanistan, atti contrari alla Costituzione italiana. Si lascia invece quasi privo di risorse il Servizio Civile Nazionale, strumento di difesa civile della Patria prevista dalla legge e coerente con la Costituzione.

Del resto, le forze armate e i loro armamenti non sono solo strumenti di guerra potenziale, che diventano attuali solo quando entrano in azione. Le armi sono strumenti e mezzi di guerra in atto anche quando non sparano, perché la quantità enorme di risorse pubbliche che vengono destinate alle spese militari, alla preparazione della guerra contro minacce ipotetiche o pretestuose, lasciano la Patria senza difesa ed insicura rispetto alle reali minacce alle quali sono gravemente sottoposti, qui ed ora, tutti i cittadini, sul proprio territorio: la disoccupazione e la precarietà del lavoro, la povertà e l’analfabetismo, la fragilità edilizia in un paese sismico e i disastri idro-geologici…

Svuotare gli arsenali e riempire i granai, diceva il Presidente Pertini, ed invece abbiamo riempito gli arsenali e svuotato i granai, offrendo la peggiore delle risposte possibili alla crisi economica e sociale che stiamo vivendo.

Ricordare davvero le vittime delle guerre e costruire la pace può dunque avvenire solo avviando un serio disarmo, attraverso la riconversione dalla difesa militare alla difesa civile; liberando le risorse necessarie per l’affermazione dei “principi fondamentali” sanciti nei primi dodici articoli della Carta costituzionale, quelli che offrono la sicurezza della cittadinanza – il lavoro, la solidarietà, l’uguaglianza, la cultura, la difesa del patrimonio naturale – attraverso il ripudio della guerra e degli strumenti che la rendono possibile. Il 4 novembre, come tutto l’anno.

Per questo il nostro Movimento, insieme a Peacelink e al Centro di ricerca per la pace di Viterbo, ha lanciato per il 4 novembre la campagna “Ogni vittima ha il volto di Abele”, affinché in ogni città si svolgano commemorazioni nonviolente delle vittime di tutte le guerre.

Movimento Nonviolento

http://www.nonviolenti.org