Uscito su “Azione nonviolenta-speciale disarmo” (8-9/2012), pubblichiamo oggi questo articolo in preparazione della Settimana internazionale per il Disarmo, che inizierà il 24 ottobre
Un mondo in pieno riarmo (e nessuno lo dice)
Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute, la più autorevole agenzia internazionale di monitoraggio delle spese militari(1), nel 1988 – anno che precede l’abbattimento del “muro di Berlino” – durante il quale si raggiunse il picco di spesa dell’epoca della “corsa agli armamenti”, le spese militari globali viaggiavano ben oltre i 1.400 miliardi di lollari (calcolati in US $ costanti 2010). Era l’inizio della fine dell'”equilibrio del terrore” durante il quale gli USA, la principale potenza mondiale, avevano una spesa militare annua di 540 mld di dollari e l’URSS la potenza antagonista spendeva 330 mld di dollari. Contro questa assurda escalation riarmista, anche nucleare, lungo tutti gli anni ’80 si sviluppò un imponente Movimento per il disarmo negli USA, in Europa, in Italia. “Corsa agli armamenti” e “disarmo” erano i temi all’odg nelle agende dei mezzi di informazione, dei partiti, della società civile, degli intellettuali.
La fine del mondo bipolare, con le rivoluzioni nonviolente nei paesi del blocco sovietico (imploso anche per essere più riuscito a sostenere quella dispendiosa rincorsa), aprono un nuovo scenario storico che in un primo tempo sembra portare ad una sorta di “dividendo di pace” – nonostante le guerre nel Golfo Persico e nella ex Jugoslavia – che riduce le spese militari globali: nel 1998 la Russia “crolla” a 20 mld di dollari; nel 1999 gli Usa spendono “appena” 367 mld di dollari.
Poi, dopo l’11 settembre 2001, la corsa globale agli armamenti riprende con un ritmo vorticoso, fino a raggiungere nel 2011 un nuovo picco: negli USA tocca la cifra di 711 mld di dollari (+ 30 % rispetto al 1988) ossia il 41% della spesa globale; nello stesso anno in Russia sale a 72 mld di dollari; si registra un grande balzo in avanti della Cina che raggiunge i 143 mld di dollari; l’Unione europea nel suo insieme, pur strangolata da una crisi economica senza precedenti, spende l’incredibile cifra di 407 mld di dollari, ossia molto di più di quanto spendeva l’URSS nel suo momento di massima espansione imperialista, prima del crollo. Insomma, la spesa militare globale raggiunge oggi la cifra stratosferica di 1.740 mld di dollari, mai raggiunta nella storia dell’umanità: un enorme processo di riarmo, in piena crisi economica globale.
Eppure (quasi) nessuno lo dice. Il riarmo e il disarmo sono i grandi temi rimossi di questo passaggio storico, usciti dall’agenda politica, dal circuito informativo, dall”orizzonte culturale e dunque dalla coscienza collettiva.
Il ripudio della Costituzione italiana
Il nostro Paese è stabilmente, da molti anni, tra le prime dieci potenze militari – nel 2011 mantiene i suoi 34,5 mld di dollari (equivalenti a 26 mld di euro) – e da vent’anni è consecutivamente impegnato in azioni di guerra nei vari scenari internazionali, alla “difesa” o meglio alla conquista dei cosiddetti “interessi nazionali” , spacciate per ossimoriche “missioni di pace”. E’ l’applicazione del cosiddetto “nuovo modello di difesa”, che “giustifica”, tra le altre cose, anche l’acquisto dei cacciabombardieri d’attacco F 35, in pieno contrasto con il sistema normativo italiano. A cominciare dalla Costituzione.
La Costituzione italiana si occupa dei temi della difesa in due articoli.
Il primo, l’art. 11, è uno dei dodici “principi fondamentali”, cioè i principi che formano l’architrave del nostro Patto di cittadinanza, nel quale si “ripudia la guerra” non solo “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma anche come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Questo principio fondamentale, unico articolo della Costituzione nel quale si usa la forza del verbo ripudiare, è la negazione della tradizione politica della “ragion di Stato”, della politica intesa come “fine che giustifica i mezzi”, ed è contemporaneamente l’apertura e l’orientamento alla ricerca di “strumenti” e “mezzi” alternativi alla guerra.
Il secondo, l’art. 52, afferma solennemente che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino” e aggiunge che “il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge”. La Corte Costituzionale già nel 1985, sulla spinta del movimento degli obiettori di coscienza, aveva sentenziato che l’art. 52 va letto e interpretato scindendo il primo dal secondo comma, perché la difesa della Patria è un dovere per tutti i cittadini, non solo degli abili ed arruolati nelle forze armate. Il secondo comma si riferisce pertanto ad una modalità di difesa della Patria, quella armata – che oggi vede comunque “sospesa” l’obbligatorietà del servizio militare – accanto alla quale ce n’è un’altra: quella disarmata.
In diretto riferimento a questi principi costituzionali, la legge istitutiva del Servizio Civile Nazionale n.64/2001 indica come primo tra i “principi” e le “finalità” del SCN quello di “concorrere, in alternativa al servizio militare, alla difesa della Patria con mezzi e attività non militari”. Ossia pone le basi legislative per l’altra difesa, quella difesa disarmata, “mezzo” e “strumento” coerente con il costituzionale “ripudio della guerra”. Senonché “concorrere” nella lingua italiana significa “correre con”, correre insieme, ma può anche significare “essere in concorrenza” con il servizio militare. Ma è evidente come, nella realtà, la concorrenza sia del tutto sleale: per l’anno in corso di servizio civile, per ventimila volontari “difensori civili della Patria”, sono stati spesi 68 milioni di euro, meno della metà del costo medio di un solo caccia F-35, calcolato in una cifra che oscilla tra i 133 e i 170 milioni di euro, del quale si prevede l’acquisto di minimo 90 esemplari. 90 colpi mortali al Servizio Civile, al precario bilancio dello Stato, alla sempre più (essa si) ripudiata Costituzione italiana.
il disarmo culturale
Di fronte al drammatico scenario internazionale e al ripudio reiterato della nostra Costituzione, così come le generazioni passate – a partire dalla scelta solitaria di Pietro Pinna – consapevoli dell’esigenza del disarmo, hanno conquistato il diritto all’obiezione di coscienza ed al servizio civile alternativo, la generazione attuale ha il diritto ad accedere ad una nuova coscienza disarmista e il compito di conquistare il diritto alla difesa “non armata e nonviolenta” della Patria. La quale passa necessariamente attraverso il disarmo militare e la riconversione delle risorse dalla “difesa” fondata sullo “strumento” e “mezzo” della guerra a quella fondata sul “metodo” (Capitini) della nonviolenza. Si tratta di un cambiamento di paradigma culturale, ossia di una vera rivoluzione, seppur costituzionale.
E’ una rivoluzione che, per avvenire davvero, deve consapevolmente puntare a decostruire, a disarmare, appunto, il livello più radicato, quello che Johan Galtung indica come il terzo livello di profondità e chiama il “potere culturale”, cioè la dimensione simbolica della violenza che (quasi) tutti danno per scontata e ritengono inevitabile. Su di essa è costruito e reso socialmente accettabile il secondo livello, ossia la struttura militare-industriale-commerciale-mediatica del sistema di “difesa” fondato sulle forze armate, quello alimentato dalle crescenti spese militari pubbliche e dalla produzione e dal commercio delle armi, partecipato fortemente dal pubblico (settore in cui il “made in Italy” primeggia). Da questo deriva, infine, il primo livello, quello della guerra vera e propria agita sui molteplici “teatri” internazionali nei quali sono impegnati i “nostri ragazzi”, i soldati “combattenti”, da vent’anni senza soluzione di continuità: dal Golfo (uno e due), alla Somalia, alla Jugoslavia, all’Afghanistan, alla Libia…
Quanto sia profondo questo livello culturale e quanto sia gravoso, ma necessario e urgente, il compito del disarmo culturale lo ha analizzato compiutamente il sociologo Ekkeart Krippendorff: “esistono Stati con o senza partiti, parlamenti, costituzioni scritte, tribunali indipendenti, con o senza presidenti, banche centrali, chiese di Stato, moneta propria, lingue nazionali e così via, ma tutti hanno le loro forze armate. Globalmente considerati, tutti gli Stati spendono per le forze armate più che per l’educazione e la salute dei loro cittadini. (…). Dall’altro lato, proprio questa istituzione con le sue guerre, di cui soltanto nell’ultimo secolo sono cadute vittime milioni e milioni di persone, per tacere del numero molto più grande delle persone cacciate dalle loro terra e di quelle ridotte alla fame dalle conseguenze della guerra, riceve da parte delle scienze sociali un’attenzione relativamente modesta, e nella stampa e nell’opinione pubblica l’istituzione militare viene trattata solo come uno dei tanti temi. L’istituzione militare non viene però vista come uno dei tanti organi dello Stato, bensì come quello addirittura più ovvio tra di essi…”(2). A destra, come spesso a sinistra.
dis-velare la sicurezza e la difesa della Patria
Se ciò che traduciamo con la parola “verità” deriva dal greco alétheia che, come ha insegnato il filosofo Martin Heidegger, significa letteralmente non-nascondimento ossia dis-velamento, attraverso il disarmo culturale – ossia la presa di coscienza sulla verità della situazione attuale, sui piani della corsa agli armamenti e del ripudio della Costituzione repubblicana, piuttosto che della guerra – può avvenire il dis-velamento di un’altra idea di “difesa della Patria”.
Le forze armate non sono solo uno strumento di guerra potenziale, che diventa attuale esclusivamente quando entrano in azione. Esse sono strumento e mezzo di guerra in atto anche quando le armi non sparano, perché la quantità enorme di risorse pubbliche che vengono destinate alle spese militari, alla preparazione della guerra contro minacce ipotetiche o pretestuose, lasciano la Patria senza difesa ed insicura rispetto alle reali minacce alle quali sono gravemente sottoposti, qui ed ora, tutti i cittadini, sul proprio territorio, nella propria comunutà nazionale: le mafie, la disoccupazione e la precarietà del lavoro, la povertà e l’analfabetismo, i terremoti e i disastri idro-geologici…“La sicurezza è un bene condiviso la cui responsabilità è di tutti”(3), dice in un in’interista l’ammiraglio Di Paola, ministro della “difesa”, ma proprio investire miliardi di euro in armi, invece che in lavoro, scuola, sanità e servizi sociali, mina il “bene” della sicurezza di milioni di persone. Riempire gli arsenali e svuotare i granai è la peggiore delle risposte possibili alla crisi economica e sociale
Ripudiare davvero la guerra e avviare un serio disarmo attraverso la riconversione dalla difesa militare alla difesa civile, significa dunque rivedere – dis-velare – i concetti stessi di “minaccia”, di “sicurezza” e di “difesa” della Patria. Significa cambiare paradigma di riferimento, fuoriuscire dal “potere della violenza” che ci fa velo, e contemporaneamente liberare le risorse necessarie per la reale affermazione dei “principi fondamentali” sanciti nei primi dieci articoli della Carta costituzionale, quelli che offrono la sicurezza della cittadinanza: il lavoro, la solidarietà, l’uguaglianza, la cultura, la difesa del patrimonio naturale e cosi via. Del resto è uno studio economico dell’Università del Massachusset che dimostra come investendo un miliardo di dollari nel settore militare si creino (direttamente e indirettamente) 11.200 posti di lavoro, mentre investendo lo stesso miliardo nel settore educativo se ne creino ben 26.700 (di cui 15.300 direttamente) (4).
Gli “effetti collaterali”
Inoltre, il veritiero ripudio della guerra e la fondazione di una conseguente nuova “difesa della Patria” ha ulteriri ricadute dirette e indirette, positivi “effetti collaterli”. Su un piano diretto, la prima conseguenza è la costruzione – cioè la ricerca, la progettazione, il finanziamento, la preparazione ecc – di “mezzi” e “strumenti” differerenti per la risoluzione dei conflitti interni e internazionali: per esempio quei “Corpi civili di pace”, magari a dimensione europea, come avrebbe voluto Alex Langer, capaci di intervenire nei conflitti prima della loro degenerazione violenta, con gli strumenti della prevenzione, durante, con l’arte della mediazione e dopo, con i processi di riconciliazione.
Significa, inoltre, avviare ulteriori e conseguenti dis-velamenti che aprano la strada al cambiamento dei principali paradigmi culturali e formativi, per esempio nei campi della storiografia e della pedagogia. Nel primo caso avviando una rilettura critica delle vicende storiche, attraverso narrazioni capaci di uscire dalla retorica, o dal mito, della “violenza levatrice della storia”, riconoscendo il giusto peso e valore a tutte le azioni che hanno prevenuto, o risolto, i conflitti, o resistito ad un oppressore in maniera disarmata, civile o nonviolenta(5). Nel secondo caso impostando un progetto formativo nazionale capace di educare diffusamente – a partire dai primi anni dei percorsi scolastici – alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, per aiutare i più giovani a sviluppare quelle competenze esperienziali, prima ancora che teoriche, necessare per vivere nel tempo della complessità e della convivenza delle differenze.
Insomma, l’impegno per il diarmo apre il varco alla più lungimirante e vera (non-nascosta o dis-velata) sicurezza e difesa della Patria.
1.www.sipri.org
2.L’arte di non essere governati, Fazi editore, Roma, 2003
3.Corriere della Sera, 18 luglio 2012
4.http://www.peri.umass.edu/fileadmin/pdf/published_study/PERI_military_spending_2011.pdf
5.http://pasqualepugliese.blogspot.it/2010/12/historia-magistra-vitae.html
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