Jean-Marie Muller: la nonviolenza come principio filosofico

Rileggendo il volume del filosofo francese Jean-Marie Muller Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace – lavoro del 1995, edito in italia nel 2004 a cura delle edizioni Plus, con prefazione di Roberto Mancini e tradotto da Enrico Peyretti – mi sono imbattuto, ancora una volta, nella illuminante Premessa al volume, a cura dello stesso autore, che ne fornisce le chiavi di lettura.
Mentre si aspetta il rituale appuntamento filosofico di fine estate di Modena, Carpi e Sassuolo, che quest’anno si interroga su “le cose”, guardandone il programma ci ha colpito che il “Festival Filosofia” si è dimenticato di interrogarsi proprio sul senso delle più radicali (e tuttavia “scontate”) tra le “cose” inventate dall’umanità, quelle pensate per cancellare il pensiero e la vita stessa singolarmente ma, potenzialmente, anche in modo definitivo e totale dal pianeta, ossia armi ed armamenti. Proponiamo alcuni brani dalla premessa al libro di Muller, che contiene riflessioni essenziali perché vanno all’essenza delle questioni cruciali per la nostra vita e il nostro futuro. Gettando un fascio di luce anche sulle attuali dimenticanze filosofiche.
(Da pag. 22 a pag. 27. L’organizzazione in paragrafi, con i relativi titoli, è nostra)

La rivolta del pensiero davanti alla violenza
A guardare la storia, può sembrare che la violenza pesi sull’umanità come una fatalità. Se l’uomo fosse un animale sarebbe il più crudele degli animali. Ma l’uomo è un essere dotato di ragione ed è precisamente per questo che egli è il più crudele degli esseri viventi. Se l’uomo non fosse dotato di ragione, non sarebbe stato capace di programmare scientemente e scientificamente le tragedie di Auschiwitz, di Hiroshima e dell’arcipelago Gulag. E tante altre tragedie sono avvenute attraverso il mondo prima e dopo queste che possono tutte ugualmente essere simbolo dell’orrore e della violenza organizzata dell’uomo contro l’uomo. Come può la coscienza umana non rivoltarsi al ricordo di tutte queste violenza e di tutte le persone il cui volto attraverso il corso dei secoli è stato sfigurato dal ferro e dal fuoco? E’ lo scandalo di questa violenza esercitata da uomini su altri uomini che mette in movimento il pensiero filosofico; è la certezza che questo male non deve essere che provoca la riflessione. Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini è l’atto fondatore della filosofia. Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio nonviolenza.
La cultura è, secondo la definizione che ne ha dato Marcel Mauss “l’insieme delle forme acquisite di comportamento nelle società umane”. E’ per questo che noi parliamo di “cultura della violenza” per dire che gli individui, sotto l’effetto dell’influenza sociale, orientano il loro comportamento privilegiando la violenza come mezzo normale per difendere la loro comunità di fronte alle minacce che pesano su di essa. La cultura coltiva la violenza (coltivare viene dal latino colere che significa nello stesso tempo coltivare ed onorare) inculcando negli individui l’idea che essa è la virtù dell’uomo forte, dell’uomo coraggioso, dell’uomo d’onore che assume il rischio di morire per difendere i valori che danno senso alla sua vita. Nell’immaginario dei popoli, l’eroe è colui che ha preso le armi per difendere la patria contro i barbari. E la società innalza statue e rende un culto ai suoi eroi. La cultura circonda la violenza di prestigio, ma, precisamente, dire che la violenza è prestigiosa è riconoscere (secondo il significato etimologico di questa parola che viene dal latino praestigiosus, “che fa illusione”) che essa è illusoria, cioè che essa inganna coloro che cedono alla sua tentazione. Ma da quando gli uomini hanno cominciato a versare il loro sangue per una causa, questa, qualunque essa sia, diventa sacra. Sarà per loro necessario continuare sempre a versare il loro sangue affinché non si possa dire che le prime vittime hanno versato il loro invano. E’ la violenza in definitiva che sacralizza la causa e non il contrario. Così Zarathustra proclama ai suoi “fratelli” nella guerra: “Voi dite che la buona causa santifica persino la guerra? Io vi dico: è la buona guerra che santifica ogni causa”. Se la violenza è sacralizzata, la nonviolenza non può che essere un sacrilegio e colui che vi si appella merita l’anatema.

Mettere in dubbio le credenze per riprendere coscienza
Una delle manifestazioni più significative della nostra cultura della violenza è l’importanza considerevole degli investimenti intellettuali consentiti nell’attività delle nostre società per la fabbricazione delle armi in vista di organizzare l’omicidio di massa dei nostri simili, e noi siamo a tal punto “coltivati” che questa produzione di armi non soltanto non ci scandalizza, ma nemmeno ci stupisce. Noi abbiamo d’altra parte a nostra disposizione una quantità di argomenti per giustificare questo fatto.
La cultura della violenza ha bisogno di riferirsi a una costruzione razionale che permetta agli individui di giustificare la violenza. E’ qui che interviene l'”ideologia della violenza”. La sua funzione è quella di costruire una rappresentazione della violenza che evita di vedere ciò che essa è effettivamente: inumana e scandalosa. L’ideologia della violenza mira a occultare ciò che la violenza ha di irrazionale ed innaccettabile e a farne prevalere una rappresentazione razionale accettabile. Si tratta di dissimulare la realtà scandalosa della violenza attraverso una rappresentazione che la valorizzi positivamente. Lo scopo ricercato – e spesso raggiunto – è la banalizzazione della violenza. Invece di essere bandita – dichiarata fuori legge – la violenza è banalizzata – dichiarata conforme alla legge. Da questo momento, più nessun freno intellettuale si opporrà all’uso della violenza.
“La morale – scrive Emmanuel Levinas – non appartiene alla cultura: essa permette di giudicarla”. Per poter giudicare la cultura, è importante dunque sospendere la nostra adesione ai giudizi che la cultura ci ha inculcato. Difficile impresa, che esige di prendere una distanza dalla nostra cultura per disapprendere quello che noi abbiamo appreso, per rinnovare il nostro sguardo sull’uomo e sul mondo, per ri-prendere il nostro pensiero. Si tratta di rimettere in causa i nostri saperi per rimettere ordine nelle nostre idee. Si tratta di mettere in dubbio le nostre credenze per riprendere coscienza, per ri-prendere conoscienza. Ma in nome di quali criteri e di quali esigenze? In nome della filosofia? Ma dove scoprire la sorgente della filosofia se non ancora nella nostra cultura? Sarebbe illusorio pretendere di sfuggire ad ogni influenza, ma forse è possibile prendere la misura delle influenze culturali alle quali noi siamo stati sottomessi – esso sono molteplici e contraddittorie – e di discernere quelle che sono delle aperture verso una maggiore luce, che sono portatrici di senso, e quelle al contrario che sono delle chiusure e degli accecamenti. Forse è possibile scegliere le nostre influenze. L’uomo deve fare questa scommessa, che egli non è un essere determinato sottomesso alla fatalità. Egli non è libero, egli non nasce libero, ma può conquistare la propria libertà. La libertà è sempre un inizio, un ri-cominciamento. Come ultima risorsa, l’uomo non ha altra scelta che farsi lui stesso giudice della verità che dà senso alla sua vita. Egli non potrebbe senza dimissionare dalla sua responsabilità sottomettersi a una qualunque autorità esteriore che gli detti la verità. Per diventare responsabile ed autonomo egli non può far altro che affidarsi alla sua propria ragione e non alle ragioni di altri. Poiché è un essere ragionevole, l’uomo ha la facoltà di liberarsi poco a poco dai condizionamenti e dalle chiusure della cultura per costruire poco a poco il suo pensiero, la sua morale, la sua filosofia.

Stanare gli estremismi dentro le ortodossie
Noi abbiamo preso l’abitudine di mettere le violenze che condanniamo sul conto degli estremismi. Ma questi estremismi che noi rifiutiamo non sono possibili che grazie alle ortodossie che noi accettiamo. Per definizione, l’estremista è il partigiano di una dottrina spinta fino alle sue conseguenze estreme, e ciò significa che esiste un legame tra questa dottrina e le ragioni degli estremisti. L’ortodossia della dottrina alla quale questi si riferiscono non è innocente dei misfatti e dei crimini ai quali essi si abbandonano. Gli estremisti di cui noi vediamo dappertutto gli effetti distruttivi non possono esistere che per il fatto che essi prendono dalle ortodossie gli argomenti per la loro propaganda. Certo essi esagerano, ma precisamente ciò che essi esagerano, cioè ingrandiscono e amplificano, sono i principi dell’ortodossia. E’ l’ortodossia che offre la materia prima dell’esagerazione dell’estremismo; è essa che gli fornisce i pretesti che servono a giustificare i suoi eccessi. Le ortodossie portano così il germe e nutrono esse stesse le escrescenze degli estremismi. Giustificando “l’uso ragionevole della violenza”, le ortodossie giustificano già l’abuso degli estremismi. Poiché la violenza non è ragionevole ed è in se stessa un abuso. La violenza che si crede legata pacificamente dentro l’ortodossia si risveglia da un momento all’altro, si scatena e diventa orrenda. Ma proprio l’ortodossia è il suo campo base da cui essa dirige le sue operazioni criminali. Per combattere la violenza degli estremismi bisogna arrivare a braccarla e stanarla nei punti precisi dove essa si ripara nel seno delle ortodossie.
L’ideologia nazionalista che insegna il disprezzo dello straniero si appoggia sul culto della patria che esalta l’identità nazionale dei popoli. Lo stato totalitario pretende di fondare la sua legittimità sulla dottrina della democrazia che attribuisce allo stato il monopolio della violenza legittima. La guerra totale fonda la sua giustificazione sulla dottrina della guerra giusta che legittima e onora la violenza e l’omicidio dal momento che essi sono al servizio di una causa giusta. L’integralismo religioso si radica nell’ortodossia delle religioni che professano una dottrina della violenza legittima.
Perciò non è possibile sconfessare, ricusare e disarmare gli estremismi senza rimettere in causa le ortodossie che forniscono loro le giustificazioni. Per spezzare la logica di violenza degli estremismi, noi dobbiamo cominciare col rompere con tutto ciò che nella nostra cultura, legittima e onora la violenza come virtù dell’uomo forte. Questa rottura sarà dolorosa, perché essa dovrà avvenire in profondità. Noi scopriremo che per rompere con la cultura della violenza si tratta in definitiva di rompere con la nostra stessa cultura. Ed è estremamente difficile rifiutare la tradizione che ci è stata trasmessa come una eredità sacra. Anche quando noi avremo acquisito la convinzione che questa rottura è necessaria per delegittimare definitivamente la violenza, essa ci apparirà ancora, in qualche misura, come un rinnegamento, come una abiura. Sopratutto, essa sarà sentita come un sacrilegio dagli altri, da quelli che vorranno difendere la tradizione. Questo senso di sacrilegio sarà raddoppiato quando, come è spesso il caso, l’idea della violenza sarà coniugata con una dottrina religiosa. Quelli che vorranno difendere la sana dottrina denunceranno ogni rottura come un’eresia e non mancheranno di gettare l’anatema sugli infedeli.

La nonviolenza fonda l’umanità dell’uomo
Le tradizioni di cui noi siamo eredi, mentre hanno dato un grande e bello spazio alla violenza, non hanno praticamente accordato alcuno spazio alla nonviolenza, fino al punto di ignorarne il nome. Tuttavia, in ciascuna delle nostre tradizioni ci sono dei punti di appoggio sui quali noi possiamo fondare una saggezza della nonvioelnza. Ciascuna delle nostre tradizioni, in effetti, porta in se stessa dei “valori” che conferiscono ad ogni uomo dignità, grandezza e nobiltà, e che domandano che ogni uomo sia rispettato e amato. Per se stessi, questi valori vengono a contraddire la pretesa della violenza di dominare la vita degli uomini e delle società. In ciascuna delle nostre culture, in un momento o in un’altro, si sono trovate delle donne e degli uomini che hanno avuto la forza di entrare in dissenso dai loro contemporanei per affermare il primato di questi valori sopra le pretese della violenza. Ma, il più delle volte, questi valori si sono trovati largamente coperti e sopraffatti dalle scorie dell’ideologia della violenza e, per questo fatto, sono stati negati e rinnegati. E’ nella fedeltà a questi valori, dal momento in cui saranno purificati da ogni mescolanza, che ciascuno di noi può convincersi che l’esigenza della nonviolenza fonda l’umanità dell’uomo. E noi scopriremo che questa fedeltà ci condurrà di là della rottura che avremo operato, ci condurrà nel cuore stesso della nostra cultura.

La tenacia e la coerenza

Se la stessa tenacia con la quale la Chiesa cattolica difende il diritto alla vita degli embrioni, fosse usata per difendere il diritto alla vita delle persone fatte lottando contro il flagello della guerra, questa sarebbe ormai un ricordo del passato.
E invece promuove ancora i cappellani militari, preti-ufficiali dell’esercito che benedicono i combattenti in armi, aiutandoli a portare la morte scaricando la coscienza.
C’è un problema di coerenza?

Laboratorio di ricerca: conflitto e violenza

Riflessioni a partire dalla lettura collettiva de Il principio nonviolenza, di Jean-Marie Muller

Quindici persone sedute intorno ad un tavolo per ricercare insieme: non per dovere ma per passione, non per ascoltare qualcuno ma per fare una elaborazione comune, per approfondire e indagare collettivamente intorno ad un pensiero generativo. La modalità restituisce l’intenzione di aprire più che chiudere, di porre questioni più che dare risposte, perché “la nonviolenza è affidata ad un metodo che è aperto ed è sperimentale”, secondo la definizione che ne diede Aldo Capitini.
Per agevolare il percorso esplorativo delle diverse dimensioni della proposta culturale e politica della nonviolenza ci è sembrato utile collocare dei segnavia che aiutassero a segnalare i punti di riferimento di un cammino, elaborato e condotto insieme fin dall’inizio, ma sviluppato attorno ad un filo conduttore necessario per non disperdersi. Le parole hanno la caratteristica di fornire gli stimoli, di aiutare a porre le domande aperte all’aggiunta di ulteriori elaborazioni.
Naturalmente, si potevano scegliere anche altre parole di riferimento, perché l’approccio nonviolento ha una rilevanza in tutti gli aspetti della vita personale e collettiva, ma ne abbiamo proposte, per cominciare, cinque – conflitto e violenza, potere, politica, pace – che hanno la caratteristica comune di costituire gli elementi preliminari, e fondanti, di un discorso pubblico sulla nonviolenza. Queste parole sono state appoggiate sui testi di quattro autori – Jean Marie Muller, Gene Sharp, Ekkehart Krippendorf, Johan Galtung – anzi su alcuni, pochi, e generalmente introduttivi, capitoli selezionati di una specifica pubblicazione di ciascuno. La caratteristica che accomuna questi quattro autori è di essere viventi e di fornire ancora adesso un contributo alla elaborazione collettiva nonviolenta, anche in reciproco dialogo.
Del resto, come sappiamo, la nonviolenza si sviluppa attraverso una dinamica prassi-teoria-prassi che cresce per aggiunte successive, alla quale conribuiscono popoli e movimenti che s’impegnano in lotte e campagne, autori che riflettono su quelle lotte, chiarificandone punti di riferimento e metodi a beneficio di tutti, altri popoli e altri movimenti fanno altre lotte e altre campagne, arricchite dalle esperienze e delle teorizzazioni precedenti. Inoltre, ciascuno degli autori “convocati” in questo laboratorio di ricerca ha una storia d’impegno personale nei movimenti di base, succesivamente riflettuta anche sul piano teorico.
Questo è stato il laboratorio di ricerca “Le parole della nonviolenza”, svolto nella primavera del 2012, alla Casa delle Culture di Modena. Quella che segue non è una trascrizione completa dei lavori, ma un tentativo di messa a fuoco di alcuni elementi di riflessione emersi nel primo incontro, anche in funzione e a beneficio di chi non c’era.

il principio filosofico
“Il principio nonviolenza” di Jean Marie Muller è un testo fondamentale per la storia culturale della nonviolenza internazionale perché, oltre a svolgerne un approfondimento problematico, mette in dialogo la teoria e la pratica della nonviolenza con il pensiero filosofico contemporaneo. Un’operazione analoga era stata svolta anche da Aldo Capitini in Italia, rispetto alla tradizione classica ma, non conoscendo le lingue, la sua riflessione è rimasta ai margini delle linee di pensiero europee a lui contemporanee, nel secondo dopoguerra. Muller dialoga con la filosofia dal ‘900, da Hannah Arendt a Emmanuel Levinas, cercando una ri/fondazione filosofica della nonviolenza, attraverso la messa a confronto con i temi del pensiero contemporaneo, anzi, mettedondo questi temi ed autori a confronto con la nonviolenza. Operazione avvalorata nell’edizione italiana anche dalla scelta del traduttore, il nostro amico Enrico Peyretti, che rende il titolo originale del volume pubblicato in Francia nel 1995, “Le principe de non-violence”, con “Il principio nonviolenza” facendo implicito riferimento al “principio speranza” di Ernst Bloch, filosofo della tradizione marxista “ereticale”, e al “principio responsabilità” di Hans Jonas, filosofo dell’età tecnologica. Il riferimento mulleriano al “principio” vuole porre la nonviolenza come fondamento filosofico a partire dal quale si dà la possibilità stessa di svolgere la filosofia, in quanto fondamento della possibilità di pensare: il pensare sta nella relazione e la relazione o è nonviolenta oppure non può creare un pensiero libero, critico, autonomo. Dunque non è riflessione, ma balbettìo. “Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini è l’atto fondatore della filosofia. Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio nonviolenza” (p.22), scrive Muller in premessa al volume.

disambiguamento
I primi due capitoli del libro, “in un mondo di conflitti” e “ri-flessione sulla violenza”, sui quali il gruppo di ricerca si è soffermato, sono densi e rigorosi insieme, pur rimanendo entrambi sull’uscio della riflessione sulla nonviolenza, costruendone le premesse: nel primo Muller affronta l’analisi del significato di alcume parole con la quale essa si deve confrontare, nel secondo entra nel tema della violenza.
Il primo capitolo aiuta il lettore a svolgere un esercizio prezioso in funzione del disambiguamento della questione della nonviolenza, a partire dalla parola che la dice. Nonviolenza esprime in italiano una formula che rimanda al metodo di azione del movimento gandhiano, come sperimentato in Sudafrica e poi sviluppato in India, chiamato satyagraha, ossia letteralmente “fermezza nella verità”; ma Gandhi parla anche di haimsa, ossia letteralmente del “non nuocere”, tradotto in Occidente con non-violenza o non violenza. Nell’accezione italiana Aldo Capitini ha unito la negazione alla parola violenza, cotruendo una nuova parola composta, per superare il negativo, ossia la semplice astensione dalla violenza. Nonviolenza vuole esprimere il pro-positivo contenuto in satyagraha. Nonviolenza è la scrittura utilizzata da Peyretti nella traduzione.
Le parole analizzate da Muller, in una serrata sequenza logica – conflitto, aggressività, lotta, forza, costrizione – sono declinate dal punto di vista della nonviolenza, che conferisce loro un significato positivo. Anche la costrizione: esiste infatti una costrizione nonviolenta, perché se è vero che l’obiettivo dell’azione nonviolenta è di con/vincere, ossia di provare a vincere con, insieme all’avversario, in realtà in questo processo di convincimento (di “persuasione” direbbe Capitini) spesso la parte che agisce il ruolo di oppressore e – proprio attraverso un conflitto agito nonviolentemente dall’oppresso – è “costretto” a cedere parte del suo potere, probabilmente solo a posteriori si renderà conto che l’aver dovuto dismettere il ruolo oppressivo è stato un avanzamento anche per lui, in qualche modo una con-vittoria. Gli inglesi, quando hanno perso il dominio sull’India non hanno pensato che stavano con-vincendo insieme agli indiani, ma sul momento hanno vissuto questo processo come una costrizione. Nonviolenta, ma pur sempre costrizione. Oggi una riflessione laica ed illuminata sullo sviluppo storico, anche da parte inglese, riconsidera quella costrizione subita come un’acquisizione di civiltà, cioè l’inizio della fine dell’imperialismo e l’avvio della decolonizzazione. Si tratta, appunto, di un’acquisizione a posteriori.
Questi passaggi aiutano a liberare il campo dalla vulgata che vuole la nonviolenza quale sinonimo di passività e rassegnazione e ribadiscono il suo essere invece una opposizione, prima ancora che alla violenza, alla rassegnazione. Essa è lotta, è forza, è potere e, in certi casi, anche costrizione, seppur fondata sull’impegno a non ledere mai la dignità dell’avversario. Elemento che la distingue fondamentalmente dalla lotta violenta: quando si esercita la violenza nei confronti dell’avversario, anche se non è portata fino alle estreme conseguenze, viene offesa la sua dignità.

La sacralizzazione della violenza
A partire da queste considerazioni, nel secondo capitolo, Muller parla anche della comprensione della “violenza della rivolta” dell’oppresso – mai della guerra – pur non giustificandola: dove c’è una violenza vera, diretta o strutturale, si può comprendere il diritto alla rabbia ed all’aggressività – l’ora basta! – dell’oppresso, anche se egli, non trovando uno sbocco differente, usa la violenza verso il suo oppressore. Lo stesso Gandhi è molto chiaro nel dire che laddove non vi fosse alternativa tra la violenza dell’oppressore e la violenza dell’oppresso, piuttosto che l’inerzia è legittima la violenza dell’oppresso. Questo tema riguarda l’asimmetria della violenza: è diversa la violenza che viene dal basso da quella che viene dall’alto, se tutte le strade alternative sono state tentate. Se tutte le strade alternative sono state tentate: qui si inserisce il nostro compito di persuasi della nonviolenza, quello di aprire, tracciare, avviarsi e proporre strade alternative alla violenza.
Da questo punto di vista siamo molto in ritardo, soggettivamnete ed oggettivamente. Anzi, sul piano culturale generale, siamo ancora talmente immersi in un contesto che Muller chiama di “sacralizzazione” della violenza e della guerra che, ancora oggi, a chi esercita la violenza in guerra è consentito di non sentirsi colpevole, purché abbia seguito le procedure corrette (secondo il noto meccanismo dimostrato nell’esperimento dello psicologo Stanley Millgram, citato dallo stesso Muller). Quando si è inseriti in un contesto che legittima la violenza, nel quale il potere culturale (ancora prima che quello politico o economico) mistifica l’efferatezza dell’atto violento ammantandolo, in guerra, di una qualsiasi retorica del dovere, si mette a tacere la coscienza di chi si trova a esercitare la violenza. Poi, però, accade che quando nella coscienza di qualcuno riesce finalmente ad affiorare il senso della gravità dell’atto commesso in guerra le conseguenze che ne derivano spesso sono anche essere di tipo psichiatrico: non sono poche le situazioni di militari che tornano dalla guerra e vanno fuori di senno ed è famoso il carteggio tra il filosofo Gunter Anders e Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima. Oggi si calcola che siano di più i reduci statunitensi dell’Iraq e dell’Afghanistan morti suicidi in patria che quelli morti in battaglia negli stessi territori occupati. In tutte le guerre, i sani di mente, quelli che non sono perfettamente integrati nella retorica del dovere e nella mistificazione della violenza, entrano in conflitto tra ciò che sono costretti a fare, che viene ipocritamente giustificato, e la propria coscienza e sanità mentale.

la retorica della guerra
Per spiegare la retorica della guerra Muller cita Johan Galtung, il quale differenzia tre forme di violenza: la violenza culturale, quella più radicata che è sedimentata nel linguaggio, nelle convinzioni diffuse, nel senso comune, ed è definita “permanente” perché dura più a lungo ed è più difficile da superare; la violenza strutturale che si fonda sulle scelte della politica, dell’economia, sulle leggi che generano quel tipo di violenza che si fa fatica a vedere se non si è dalla parte di chi le subisce, ma da quella di chi ne è avvantaggiato; e, solo come terzo livello, la violenza diretta, quella agita in maniera più evidente, quella sulla quale generalmente ci si sofferma, facendo fatica a vedere le violenze che le sottostanno e, spesso, l’alimentano. Dunque, il problema che si pone alla nonviolenza è di non fermarsi alla denuncia nei confronti dell’apice della violenza dispiegata, ma di acquisire la capacità di guardare e di agire nei confronti di tutta la filiera di violenza che l’ha generata, cercando di incidere anche su quella, a partire proprio dalla demistificazione della retorica della guerra.
Cominciando per esempio dalle parole, le quali subiscono un fortissimo processo di manipolazione al punto che se, per esempio, muoiono delle persone a causa delle condizioni di povertà che le espongono al freddo, come accade tutti gli inverni – perché prive di cibo, di abbigliamento adeguato, di un’abitazione degna di questo nome (dunque a causa di condizioni strutturali di violenza) – si dice che sono morte “per il freddo”, scaricando la responsabilità di questo sulla Natura matrigna, e non su chi ha negato le protezioni primarie. E ciò è considerato da tutti normale, non ci si fa neanche più caso: “45 morti per il freddo” hanno scritto i giornali nei giorni più freddi dell’anno e non sono stati inondati di lettere indignate. Questo meccanismo manipolatorio vale a maggior ragione per gli interventi militari: perché sono definite “missioni di pace”? Per depurare l’immaginario comune dalla rappresentazione negativa, violenta ed efferata che la guerra porta con sè, edulcorandone il linguaggio che la narra. Inoltre, per rinforzare questa idea missionaria, pacifica e umanitaria della guerra, nei mass media non passano mai immagini crudeli, a meno che non rappresentino un crimine (vero o costruito ad arte) di cui si rendono responsabili coloro che, di volta in volta, devono essere considerati non più solo “i nemici”, ma “i cattivi” tout court, l’icarnazione del male.
Siamo, in questo modo, al meccanismo della de-umanizzazione dell’avversario: per legittimare e giustificare la violenza nei confronti dell’altro, oltre che depurarla, anche nel linguaggio, dalle connotazioni efferate, violente, crudeli, è necessario attribuire all’avversario – chiunque esso sia – le caratteristiche che minano la sua stessa umanità, rendondo “moralmente” accettabile la violenza nei suoi confronti, scaricandone le coscienze e le responsabilità individuali . E’ una vecchia storia, sempre riattualizzata, nei contesti internazionali ma anche interni (ben spegata da Chiara Volpato nel suo “Deumanizzazione. Come di legittima la violenza”, Laterza, 2011).

una menzogna moderna
Anche il credere che l’umanità sia in una fase di evoluzione positiva rispetto a questi processi di violenza è puro esercizio retorico ed autoassolutorio: nell’evoluzione umana siamo passati da una fase arcaica di relativa assenza di violenza intraspecifica ad un progressivo aumento di violenza al punto che il XX secolo è stato di gran lunga il periodo più violento della Storia, dove la costruzione della capacità distruttiva della tecnologia e il dispiegamento della potenza contagiosa della guerra sono andati progressivamente aumentando, rinforzandosi reciprocamente. Tra gli altri autori che hanno svolto studi approfonditi su questo tema, Piero P. Giorgi neurobiologo autore di “La violenza inevitabile. Una menzogna moderna” (Jaca Book, 2007, al quale rimandiamo) smentisce scientificamente coloro che sostengono che dobbiamo rassegnarci al fatto che la guerra c’è sempre stata e quindi ci sarà sempre perché siamo intimamente violenti, in quanto è la stessa “natura” dell’uomo ad esserr tale. Questa vulgata circolante è una falsità sul piano storico, neurologico e biologico.
Su questo tema dice una parola autorevole anche l’UNESCO, nel cui preambolo della Carta fondamentale è scritto: “Poiché le guerre nascono nelle menti degli uomini, è nelle menti degli uomini che si devono costruire le difese della pace”, cioè la guerra è un processo culturale e non un dato naturale e dunque, in quanto tale, può essere eradicata. In questo processo tutti hanno parte di responsabilità personale. Negli anni ’80 un’equipe multiprofessionale di antropologi, biologi, neurologi, sociologi internazionali ha voluto verificare l’attendibilità o la retoricità di questa solenne affermazione e, riunita all’Università di Siviglia, ha prodotto un testo scientifico, denominato “Dichiarazione di Siviglia sulla violenza”, adottato dalla Conferenza Generale dell’UNESCO il 16 novembre del 1989, che in cinque serrati paragrafi smentisce la retorica sulla violenza inevitabile. Di particolare interesse è l’ultimo paragrafo che ri/mette nella corretta relazione violenza e guerra:
È scientificamente scorretto dire che la guerra è causata dall’”istinto”
o da qualsiasi altra singola motivazione. L’origine della guerra moderna
corrisponde ad un passaggio dal primato dei fattori emozionali e motivazionali, a
volte chiamati “istinti”, al primato dei fattori cognitivi. La guerra moderna implica
un uso istituzionale di caratteristiche personali come l’obbedienza, la
suggestionabilità e l’idealismo, abilità sociali come il linguaggio, e considerazioni
razionali come il calcolo dei costi, la pianificazione e l’elaborazione
dell’informazione. La tecnologia della guerra moderna ha esagerato i tratti
associati alla violenza sia nell’addestramento dei veri e propri combattenti sia
nella preparazione di ciò che serve di sostegno alla guerra in tutta la
popolazione. Come risultato di questa esagerazione, tali tratti vengono spesso
erroneamente considerati le cause del processo, mentre invece ne sono le
conseguenze.

mezzi e fini
Jean-Marie Muller, tra le altre cose, fa anche un importante richiamo ad Immanuel Kant e all’enunciazione del celebre, quanto ignorato, secondo imperativo etico: “agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai semplicemente come un mezzo”. Dall’altra parte del pianeta, un secolo e mezzo, dopo Mohandas Gandhi dice di preoccuparsi sempre del mezzo che si usa nell’agire, perché “il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine ad un albero: tra i due c’è lo stesso inviolabile legame”. Ecco, è come se all’interno di questo arco ideale tra Occidente e Oriente si dispiegasse la proposta filosofica e politica della nonviolenza, ancorata da un lato all’imperativo categorico dell’etica kantiana e dall’altro ad un verità “antica come le colline” della prassi gandhiana, entrambe centrate sul rapporto fondamentale tra i mezzi e i fini. Ad un polo è fissata la dignità dell’uomo, il suo non essere una cosa, appunto un mezzo, ma sempre, in ogni circostanza, un fine in sé (pensiamo come ciò sia contraddetto violentemente – e strutturalmente – nelle nostre società capitaliste, rispetto ai meccanismi di produzione e di consumo: le persone sono un fine o sono un mezzo?); all’altro polo è fissata l’attenzione ai mezzi, perché non si può incidere direttamente sui fini se non attraverso i mezzi che si usano, i quali devono essere sempre rispettosi della dignità delle persone, proprio perché le persone sono un fine in sé. Quindi nessun mezzo può essere usato a fin di bene, se contraddittorio col fine stesso: non si può fare la guerra per la pace, perché mentre si fa la guerra ciò che si alimenta è la guerra stessa. E si cosificano le persone
Da qui la comprensione mulleriana della violenza dell’oppresso ma non la giustificazione, perché dal momento in cui scatta la violenza si usano le stesse armi dell’avversario e, a quel punto, è lui che ha vinto davvero e nel profondo, oltre ad essere aumentato il livello complessivo di violenza. In fondo la stessa Seconda Guerra Mondiale forse non ci ha liberato davvero dal nazismo, perchè attraverso l’eredità della bomba atomica il male assoluto continua a con/vivere con noi. L’aver risposto alla violenza nazista sul piano dell’escalation illimitata della violenza, ha lasciato all’umanità per sempre l’eredità delle bombe di Hiroshima e Nagasaki che, fatte esplodere alla fine della guerra, sono servite proprio a costituire e ipotecare, sul piano della massima potenza distruttiva, l’ordine successivo. Non si tratta di fare una storia “controfattuale” – cosa sarebbe successo se non… – ma di porre l’attenzione sul fatto che quando ci si avvia sulla strada della violenza si perde il senso limite. Se il meccanismo della violenza funziona facendo all’altro più male di quello che l’altro può fare a noi, c’è sempre un “più uno” possibile.
Allora, ancora una volta, il tema ineludibile e urgente al tempo della illimitatezza distruttiva delle armi è la costruzione delle alternative alla violenza.

Domanda (retorica?) sulla Grecia

La Grecia spende in armamenti il 3% del proprio PIL – in proporzione è seconda solo agli USA – e mentre taglia salari e pensioni del 25%, aumenta la spesa militare del 18%, cioè la porta a 7 miliardi di euro. Ciò significa sommergibili, elicotteri, fregate…acquistati e impegnati principalmente da Francia e Germania (fonte:http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-27/grecia-annulla-acquisto-aerei-145616.shtml?uuid=AbCULSUF ) .
Domanda (retorica?): perché nessuna autorità finanziaria internazionale chiede alla Grecia il taglio delle spese militari?
Aggiunta (doppiamente retorica?): perché nessuno lo chiede all’Italia?

Un documento sconosciuto: la Dichiarazione di Siviglia sulla violenza

Nel 1986, Anno internazionale della Pace, circa venti studiosi di diverse discipline si incontrarono presso l’Università di Siviglia e stilarono un documento scientifico che contrasta, in quanto scientificamente non fondato, il pregiudizio  diffuso che ritiene la violenza – e dunque la guerra – un dato naturale, quindi inevitabile. La violenza – e sopratutto la guerra – è un dato storico/culturale dunque socialmente superabile. Il documento si conclude con questa formula: “la biologia non condanna l’umanità alla guerra. Così come le guerre cominciano nella mente degli esseri umani, anche la pace comincia nella nostra mente. La stessa specie che ha inventato la guerra può inventare la pace. In questo compito ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilità”.

Questo documento, nonostante l’autorevolezza degli autori, alla sua uscita fu pubblicato praticamente solo sul Bollettino dell’UNESCO ed ha avuto una diffusione carsica: è citato qua e là nei testi degli addetti ai lavori, è stato contestato dagli animalisti perché si fa riferimento anche ad esperimenti condotti con animali, si trova su qualche sito web pacifista e, nonostante lo scorso anno il CNR gli abbia dedicato un convegno per i 25 anni (http://www.cnr.it/cnr/news/CnrNews?IDn=2286 ) è ancora pressoché sconosciuto. Dunque da pubblicare ancora.

La Conferenza Generale dell’UNESCO ha adottato il seguente documento il 16 novembre 1968.

INTRODUZIONE
Ritenendo che sia nostra responsabilità analizzare, dal punto di vista delle nostre particolari
discipline, le più pericolose e distruttive attività della nostra specie, la violenza e la guerra;
riconoscendo che la scienza è un prodotto culturale umano che non può essere definitivo o
onnicomprensivo; e ringraziando per il loro appoggio le autorità di Siviglia e i rappresentanti
dell’UNESCO spagnolo, noi sottoscritti, studiosi di varie parti del mondo (tra cui antropologi,
etologi, fisiologi, politologi, psichiatri, psicologi e sociologi), ci siamo incontrati e abbiamo
redatto la seguente Dichiarazione sulla Violenza.
In questa dichiarazione noi contestiamo alcune presunte scoperte biologiche che sono state
usate, anche da qualche studioso delle nostre discipline, per giustificare la violenza e la guerra.
Poiché queste presunte scoperte hanno contribuito a creare un’atmosfera di pessimismo nella
nostra epoca, noi riteniamo che un esplicito e ponderato rifiuto di queste asserzioni sbagliate
possa contribuire in modo significativo all’Anno Internazionale della Pace.
L’uso scorretto di teorie e dati scientifici al fine di giustificare la violenza e la guerra non è un
fenomeno nuovo poiché è stato praticato fin dalla nascita della scienza moderna.
la teoria dell’evoluzione è stata utilizzata per giustificare non solo la guerra, ma anche il
genocidio, il colonialismo e la soppressione dei deboli.
Enunciamo la nostra posizione mediante cinque proposizioni.

PRIMA PROPOSIZIONE
E’ SCIENTIFICAMENTE SCORRETTO DIRE CHE NOI ABBIAMO EREDITATO UNA
TENDENZA A FARE LA GUERRA DAI NOSTRI ANTENATI ANIMALI.

La guerra è un fenomeno tipicamente umano e non si ritrova nelle altre specie animali.
Il fatto che i modi di fare la guerra siano cambiati così radicalmente nelle varie epoche indica
che essa è un prodotto della cultura. Si connette a ciò che è biologico fondamentalmente
attraverso il linguaggio, che rende possibile il coordinamento dei gruppi, la trasmissione della
tecnologia e l’uso di strumenti.
La guerra è biologicamente possibile, ma non è inevitabile, come è dimostrato dalle sue
variazioni per quel che riguarda la sua frequenza e la sua natura nelle diverse epoche e nelle
diverse zone della terra.
Ci sono culture che non hanno avuto guerre per secoli e ci sono culture che hanno avuto
frequenti guerre in certi periodi e non in altri.

COMMENTO
Gli scienziati hanno effettuato molti studi sul comportamento animale, inclusa l’aggressività
animale. I dati illustrati a Siviglia portano alla conclusione che la guerra è una prerogativa degli
esseri umani.
Il comportamento animale si è modificato nel tempo nel corso dell’evoluzione biologica. Invece
la guerra umana si è modificata secondo modalità chiaramente legate all’evoluzione culturale
piuttosto che a quella biologica.
Perciò, nel tempo relativamente breve di storia di cui possediamo una documentazione, la
guerra è cambiata in modo rilevante sia per quanto riguarda la sua organizzazione militare sia
per quanto riguarda i tipi di armi usate.
le cause dei conflitti e delle guerre internazionali sono così complesse che devono essere
studiate per mezzo di un’analisi sistematica e scientifica dei documenti storici. Esse non
possono essere ridotte semplicemente ad alcuni fattori, siano essi biologici o sociali. La guerra,
a differenza della biologia umana, varia in modo rilevante nel tempo e nello spazio. Popolazioni
che sono state impegnate in attività belliche in un determinato secolo (come, ad esempio, i
Vichinghi), possono vivere in pace con i popoli vicini in un altro secolo.

SECONDA PROPOSIZIONE.
E’ SCIENTIFICAMENTE SCORRETTO DIRE CHE LA GUERRA,
O QUALSIASI COMPORTAMENTO VIOLENTO,
SIA GENETICAMENTE PROGRAMMATA NELLA NATURA UMANA.

Sebbene i geni abbiano un effetto sul funzionamento del sistema nervoso a tutti i
livelli, essi forniscono un potenziale di sviluppo che può realizzarsi solo interagendo con
l’ambiente ecologico e sociale. Sebbene gli individui differiscano per quel che riguarda la
predisposizione ad essere influenzati dall’esperienza, è l’interazione fra il loro patrimonio
genetico e le condizioni in cui sono stati allevati che determina la loro personalità.
Tranne che in rari casi patologici i geni non producono individui necessariamente predisposti
alla violenza. Ma nemmeno hanno l’effetto opposto. Sebbene i geni contribuiscano a
determinare le nostre capacità comportamentali, da soli non determinano il risultato.

COMMENTO
Nel corso della storia ci sono stati autori che hanno sostenuto che gli esseri umani sono
intrinsecamente violenti o egoisti. La teoria dell’evoluzione di Darwin è stata usata per
giustificare questa asserzione. Negli ultimi anni queste posizioni sono state espresse nei
termini della moderna genetica.
Queste posizioni non riconoscono che, se è vero che gli esseri umani sono capaci di violenza e
di egoismo, sono anche capaci di azioni non violente e di cooperazione. Queste posizioni di
solito rappresentano una resistenza da parte degli autori nei riguardi di riforme sociali basate
sull’uguaglianza. Il fatto che queste posizioni siano espresse nei termini della teoria di Darwin o
della moderna genetica non le rende affatto più scientifiche.
Le scoperte di Darwin e della moderna genetica sono state rivoluzionarie per molte branche
della scienza, ma non possono spiegare in modo diretto il comportamento animale e quello
umano.

TERZA PROPOSIZIONE
E’ SCIENTIFICAMENTE SCORRETTO DIRE CHE NEL CORSO DELL’EVOLUZIONE UMANA
C’È STATA UNA SELEZIONE DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO PIÙ CHE DI ALTRI
TIPI DI COMPORTAMENTO.

In tutte le specie che sono state studiate esaurientemente lo status all’interno del gruppo è
raggiunto in base alla capacità di cooperare e di svolgere funzioni sociali importanti per la
struttura del gruppo.
La “dominanza” implica legami sociali e affiliazioni; non è solo una questione di possesso e di
uso di una maggiore forza fisica, quantunque implichi comportamenti aggressivi. Quando la
selezione genetica del comportamento aggressivo è stata perseguita artificialmente negli
animali, essa ha portato rapidamente alla produzione di individui iperaggressivi; ciò indica che
l’aggressività non è stata selezionata in misura massimale in condizioni naturali.
Quando questi animali iperaggressivi creati sperimentalmente sono inseriti in un gruppo
sociale, o ne disgregano la struttura o ne vengono espulsi. La violenza non è parte della nostra
eredità evolutiva né risiede nei nostri geni.

COMMENTO
Gli autori che sostengono che gli esseri umani sono per natura violenti ed egoisti tendono ad
attribuire un’eccessiva importanza all’aggressività nel comportamento animale. Nello stesso
tempo essi tendono ad attribuire scarsa importanza alla cooperazione.
La dominanza e la leadership degli animali che vivono in gruppi sono caratterizzate sia dalla
loro capacità di cooperare che dalla loro aggressività. Naturalmente questo non vuol dire che il
comportamento aggressivo non abbia una sua funzione sia nel comportamento animale che in
quello umano. Per esempio, è noto che le madri sono particolarmente aggressive nel difendere
i piccoli quando questi vengono minacciati. Nelle specie animali che vivono in gruppi il
comportamento aggressivo è selezionato nel contesto della cooperazione e dell’aiuto reciproco.
Anche nel comportamento umano il comportamento aggressivo si manifesta in un contesto di
cooperazione.
Infatti la cooperazione mostrata da tutte le società umane nella raccolta del cibo e nella caccia
è considerata dagli antropologi una delle nostre caratteristiche comportamentali più
significative. La cooperazione è stata soprattutto importante per la sopravvivenza della nostra
specie.

QUARTA PROPOSIZIONE
E’ SCIENTIFICAMENTE SCORRETTO DIRE CHE GLI ESSERI UMANI HANNO UN
“CERVELLO VIOLENTO”. IL CERVELLO FA PARTE DEL NOSTRO CORPO COME
LE GAMBE E LE MANI, POSSONO ESSERE TUTTI USATI PER LA COOPERAZIONE COME PER LA VIOLENZA.

Sebbene abbiamo un apparato neurale per agire violentemente, esso non è automaticamente
attivato dagli stimoli interni o esterni. Come i primati superiori e diversamente da altri animali,
i nostri processi neurali superiori filtrano questi stimoli prima che essi provochino una reazione.
Il modo in cui agiamo dipende dal modo in cui siamo stati condizionati e socializzati. Non c’è
nulla nella nostra neurofisiologia che ci costringa a reagire violentemente.

COMMENTO
Le ricerche sul cervello hanno cercato di capire i modi in cui il cervello controlla le emozioni
come la rabbia e la paura e le abilità sociali come la capacità di imparare e l’uso del linguaggio.
Anche a livello di animali, i meccanismi cerebrali dell’aggressività non sono attivati
direttamente dagli stimoli, ma sono regolati sulla base del contesto sociale, per esempio dal
grado di familiarità dell’altro animale.
” il comportamento aggressivo umano è molto più complesso di quello degli altri vertebrati.
Esso ha subito delle trasformazioni per effetto di molti fattori culturali come lo sviluppo delle
istituzioni e dei sistemi economici e l’elaborazione di schemi motori con l’uso degli utensili e del
linguaggio. Dal momento che sappiamo tutto questo, abbiamo l’obbligo morale di evitare
estrapolazioni filogenetiche semplicistiche, che possono essere particolarmente provocatorie, e
dovremmo chiarire che fenomeni umani come il crimine e la guerra non sono il risultato
inevitabile dei nostri circuiti neurali.”

QUINTA PROPOSIZIONE
E’ SCIENTIFICAMENTE SCORRETTO DIRE CHE LA GUERRA È CAUSATA DALL'”ISTINTO”
O DA QUALSIASI ALTRA SINGOLA MOTIVAZIONE.

L’origine della guerra moderna corrisponde ad un passaggio dal primato dei fattori emozionali
e motivazionali, a volte chiamati “istinti”, al primato dei fattori cognitivi.
La guerra moderna implica un uso istituzionale di caratteristiche personali come l’obbedienza,
la suggestionabilità e l’idealismo, abilità sociali come il linguaggio, e considerazioni razionali
come il calcolo dei costi, la pianificazione e l’elaborazione dell’informazione.
La tecnologia della guerra moderna ha esagerato i tratti associati alla violenza sia
nell’addestramento dei veri e propri combattenti sia nella preparazione di ciò che serve di
sostegno alla guerra in tutta la popolazione.
Come risultato di questa esagerazione, tali tratti vengono spesso erroneamente considerati le
cause del processo, mentre invece ne sono le conseguenze.

COMMENTO
Per capire qualcosa di complesso come la guerra moderna è necessario adottare un approccio
a più livelli. E’ necessario prendere in considerazione le differenze tra la natura e le cause delle
azioni a livelli diversi di complessità, dall’individuo al gruppo fino alla società e allo stato.
Il comportamento dei soldati nella guerra moderna ha poco a che fare con la loro aggressività.
“L’istituzione della guerra prescrive una varietà di ruoli, ciascuno con i suoi relativi diritti e
doveri. I politici, i generali, i soldati, i lavoratori dell’industria bellica mentre eseguono i compiti
che sono stati loro assegnati e assolvono il loro dovere, sono scarsamente influenzati dalle loro
tendenze aggressive. Questo è vero anche per i combattenti, per i quali più importanti
dell’aggressività possono essere la cooperazione e i rapporti con i commilitoni, l’ubbidienza e la
paura.
Quando le nazioni si preparano per la guerra usano i mass media in campagne di propaganda
per provocare paura e rabbia contro il nemico.
Tuttavia, l’immagine del nemico è una costruzione artificiale piuttosto che un tratto umano
costante.
Inoltre, la capacità della mente umana è così grande che possiamo provare nello stesso tempo
un senso di lealtà globale nel momento in cui ci identifichiamo con la nostra nazione, il nostro
gruppo etnico e la nostra famiglia.

CONCLUSIONE
Concludiamo affermando che la biologia non condanna l’umanità alla guerra.
Così come “le guerre cominciano nella mente degli esseri umani”, anche la pace comincia nella
nostra mente. La stessa specie che ha inventato la guerra può inventare la pace. In questo
compito ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilità.

David Adams, Psychology, Wesleyan University, Middletown, CT., U.S.A.

S.A. Barnett, Ethology, The AustralianNational University, Canberra, Australia

N.P. Bechtereva, Neurophysiology, Institute for Experimental Medicine of Academy of Medical Sciences of the U.S.S.R., Leningrad, U.S.S.R.

Bonnie Frank Carter, Psychology, Albert Einstein Medical Center, Philadelphia (PA), U.S.A.

José M. Rodriguez Delgado, Neurophysiology, Centro de Estudios Neurobiologicos, Madrid, Spain

José Luis Diaz, Ethology, Instituto Mexicano de Psiquiatria, Mexico D.F., Mexico

Andrzej Eliasz, Individual Differences Psychology, Polish Academy of Sciences, Warsaw, Poland

Santiago Genovés, Biological Anthropology, Instituto de Estudios Antropologicos, Mexico D.F., Mexico

Benson E. Ginsburg, Behavior Genetics, University of Connecticut, Storrs, CT., U.S.A.

Jo Groebel, Social Psychology, Erziehungswissenschaftliche Hochschule, Landau, Federal Republic of Germany

Samir-Kumar Ghosh, Sociology, Indian Institute of Human Sciences, Calcutta, India

Robert Hinde, Animal Behaviour, Cambridge University, Cambridge, U.K.

Richard E. Leakey, Physical Anthropology, National Museums of Kenya, Nairobi, Kenya

Taha H. Malasi, Psychiatry, Kuwait University, Kuwait

J. Martin Ramirez, Psychobiology, Universidad de Sevilla, Spain

Federico Mayor Zaragoza, Biochemistry, Universidad Autonoma, Madrid, Spain

Diana L. Mendoza, Ethology, Universidad de Sevilla, Spain

Ashis Nandy, Political Psychology, Centre for the Study of Developing Societies, Delhi, India

John Paul Scott, Animal Behavior, Bowling Green State University, Bowling Green, OH., U.S.A.

Riitta Wahlstrom, Psychology, University of Jyväskylä, Finland

egemonia culturale militare, piuttosto che civile

Non si trovano pochi milioni per la Biblioteca dell’Istituto italiano di studi filosofici,
che contiene la nostra storia culturale,
ma, senza scandalo,
si trovano più di 10 miliardi di euro per i caccia F-35,
che contengono il nostro disfacimento morale.
In Italia siamo sommersi dall’egemonia culturale militare
piuttosto che civile (ma anche Gramsci è ormai sommerso)

Se un Generale dis/vela la verità della guerra

Da buon militare, non fa giri di parole il Generale Fabio Mini e chiama le cose con il loro nome, a cominciare dal titolo di questo pamphlet, che è una domanda secca: Perché siamo così ipocriti sulla guerra? E lo chiede a ragion veduta, da un punto di vista tutt’altro che generico, ma dal suo particolare punto di vista di Generale di corpo d’armata, Capo di stato maggiore del comando Nato per il Sud Europa e Comandante della Kfor, la forza internazionale Nato in Kosovo, che dà alla domanda una netta radicalità.
Cita lo stratega Sun tzu, che già nel primo secolo a.C., scriveva che il tao, l’essenza, della guerra è l’inganno. L’inganno rivolto agli avversari che, al limite, avrebbe potuto consentire di vincere anche senza combattere. Ma l’ipocrisia contro la quale si scaglia il Generale Mini non è questo inganno strategico, ma è quello che da sempre accompagna la preparazione e lo scatenamento delle guerre, fabbricandone i falsi pretesti per nasconderne le reali motivazioni. Perché siamo così ipocriti sulla guerra? A questa domanda il Generale fornisce cinque risposte, altrettanto nette, che danno i titoli ai successivi capitoli del libro: la menzogna, gli affari, l’arte dell’ipocrisia, il gusto della guerra, l’ipocrisia della normalità. Le quali, nell’insieme costituiscono una “operazione verità”, nel significato etimologico di “dis/velamento”, sull’ipocrisia politica e culturale nascosta dietro alla retorica della guerra. Operazione condotta con perizia, dall’interno, da parte di chi le cose le sa, in quanto professionista di primo piano dell’organizzazione preposta alla guerra, l’esercito.

Tra i molti, interessanti, spunti del libro ne raccogliamo uno che ha un incipit, letto e scritto tante volte nei nostri lavori contro la guerra, ma quasi spiazzante se affermato da un Generale: la verità è la prima vittima della guerra. Il Generale Mini dispiega questo incipit ripercorrendo e documentando agilmente le menzogne che hanno accompagnato le guerre, con il loro carico di morti e tragedie.
A cominciare dalle atomiche del 1945 sul Giappone, il 6 agosto ad Hiroshima e il 9 agosto a Nagasaki – che a 5 anni dallo scoppio fecero conteggiare complessivamente 340.000 vittime, con gli effetti delle radiazioni che proseguirono ancora per decenni – le quali non servirono affatto, come è stato ipocritamente ripetuto, “a evitare vittime americane, accelerare la fine della guerra o a risparmiare ulteriori sacrifici ai giapponesi (sic). Non servirono a far “finire” la Seconda guerra mondiale ma a “preparare” la Terza” (p. 9) o, detto ancora più esplicitamente, “l’impiego delle bombe atomiche sul Giappone servì a rendere palese nei confronti di avversari e alleati il nuovo status di superpotenza mondiale assunto dall’America, che dimostrava di essere l’unica ad avere sia la capacità tecnica sia la volontà politica di usare la bomba atomica (p. 15)”. E poi, durante il periodo ipocritamente chiamato di “Guerra Fredda”, mentre le superpotenze si affrontavano direttamente o per procura in tutti gli angoli del pianeta, si continuò con le menzogne: “era falso il pretesto dell’incidente di Tonchino che ha dato l’avvio alla guerra del Vietnam. Come è stato accertato dalla consultazione dei Pentagon Papers del 1964, l’attacco alla nave americana Maddox fu una simulazione degli stessi americani o la versione autoassolutoria di un comandante entrato nel panico alla vista di alcune navi vietnamite” (p.24). Ancora – e veniamo in anni più recenti ed al coinvolgimento diretto in guerra anche dei nostri governi e dei nostri ragazzi – “era falso il massacro di Racak del 1999, che ha fornito il pretesto per la guerra in Kosovo. I quarantacinque corpi di civili trovati morti in un fosso non erano il risultato di un eccidio serbo perpetrato in una notte di tragedia, ma l’esito della raccolta di corpi di ribelli ammazzati nel corso di un mese di combattimenti in un’area molto vasta. Le bande UCK, con la consulenza di agenti segreti stranieri realizzarono la messinscena…L’ambasciatore William Walzer, l’americano che dirigeva la missione di verifica Osce con l’aiuto di una novantina di mercenari, ex agenti federali o della Cia, avallò la tesi dell’eccidio con la complicità di una patologa finlandese…(p. 25). E, in questo osceno dispiegarsi di falsità, ipocritamente raccontate dai governi e ossessivamente rilanciate dai media, era falso anche “il pretesto delle armi di distruzione di massa di Saddam che nel 2003, in piena guerra afgana, ha aperto un secondo conflitto, portando l’America al collasso economico e d’immagine” (p.26).
L’esito logico di questa carrellata di menzogne, e non poteva essere diversamente, è che “la guerra umanitaria” – sulla quale si fonda in Italia il continuo raggiro della Costituzione (ma questo Mini non lo dice) e la lievitazione delle spese militari – “oltre ad essere un ossimoro, è diventata la più grande ipocrisia”(p.32).

Niente di nuovo? Niente di nuovo per noi che queste cose le diciamo da sempre, ma a dirlo – per una volta – non siamo noi.Così come, per una volta non siamo noi a scrivere, ma lo leggiamo sul libro di un Generale, con un altro incipit che non lascia dubbi, che la ragione di queste falsità è che la guerra è un grosso affare: “Se quindi la menzogna risolve il problema di come iniziare la guerra, l’ipocrisia, che ne nasconde i veri scopi, permette di trasformarla in un grosso affare che duri all’infinito e che soddisfi coloro che traggono profitto sia dai combattimenti sia dalle speculazioni post belliche” (p.36). Sono gli affari che decidono dove portare le guerre con la genuflessione di governi, parlamenti e bilanci pubblici e con il relativo circo mediatico che favororisce la costruzione scientifica delle menzogne; sono gli affari che scelgono il prato migliore dove far pascolare i cavalli dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse – guerra, carestia, pestilenza e morte – anzi, aggiunge il ben informato Generale Mini “negli ambienti legati all’apparato militare industriale americano non si accettano i programmi di riduzione delle spese militari e si parla già della “minaccia della pace”. Si può essere sicuri che qualcuno ha già pensato di portare i cavalli a pascolare da qualche altra parte” (p.45). Del resto, anche l’apparato militare industriale italiano, legato a filo doppio a quello americano, non ha accettato alcuna spending review sugli armamenti trovando anche il modo di mantenere – nel pieno della peggiore crisi economica dal dopoguerra – l’acquisto più dispendioso della nostra storia, i famigerati caccia F-35. Ma, chiosa Mini l’ipocrisia italiana è quella dei mediocri,“siamo maestri dell’inganno e della truffa” (p.49).
E non risparmia il Generale neanche le istituzioni internazionali che dettano le regole dell’economia mondiale: “il Fondo monetario internazionale che assoggetta i governi deboli a drastiche misure di spese sociali non ha mai posto vincoli ai bilanci militari e anzi finisce per finanziare vere e proprie guerre, colpi di Stato e massacri. (p. 44)”
Tutto ciò ha portato le opinioni pubbliche all’assuefazione alla guerra e alla sua costante preparazione. Non a caso le spese militari globali hanno raggiunto ormai cifre ben superiori a quelle della Guerra Fredda, ma il tema è stato completamente, e abilmente, rimosso dalla coscienza collettiva e nessuno parla più di disarmo. “Dopo millenni di eccezionalità, la guerra stessa è diventata ipocritamente normale”(p.74), conclude Fabio Mini.

Tra gli altri tanti e importanti spunti di verità che fanno di questo libro una lettura necessaria, non manca un paragrafo su l’ipocrisia della non violenza

Fabio Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra? Un generale della Nato racconta, Chiarelettere editore, maggio 2012 (p.84)

, che è l’unico vero punto debole di questo lavoro. Il Generale Mini liquida in poche parole l’impegno di chi “dice di ispirarsi a Gandhi”, in una maniera del tutto superficiale e contraddittoria, imputando loro la creduloneria nei confronti del “mantra della pace”, ossia quella ipocrisia che “permette di credere che le operazioni di guerra siano “operazioni di pace” o di supporto alla pace e gli interventi militari diventano più accettabili se vengono declinati in tutte le salse inglesi usando il prefisso peace: keeping, making, bulding…”. Mi pare evidente il riferimento ai molti pacifisti della domenica, che partecipano ipocritamente alle “marce della pace” ma poi in Parlamento votano e finanziano (o votano per quelli che votano e finanziano) il menzognero ossimoro delle “missioni umanitarie”e delle “operazioni di pace”. Tra questi, tuttavia – vorrei tranquillizzare il Generale – credo di non intravvedere alcun “gandhiano”.
Del resto Fabio Mini è un Generale, serio e onesto, esperto di guerra, più che di pace e di nonviolenza, ma proprio per questo il suo pamphlet è un utile strumento di verità. E dunque di pace.

Fabio Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra? Un generale della Nato racconta, Chiarelettere editore, maggio 2012 (p.96)

Un nuovo blog, un nuovo laboratorio

Per cominciare una minima nota personale.

Dopo gli studi filosofici, durante i quali ho approfondito in particolare il pensiero di Aldo Capitini, per diversi anni ho svolto l’educatore nei servizi extrascolastici del Comune di Reggio Emilia. Oggi mi occupo di progettazione e supervisione educativa e di politiche giovanili.
In aggiunta, a volte, curo percorsi e laboratori di approfondimento e formazione sui temi di mio interesse, oltre a svolgere la formazione generale rivolta ai volontari in Servizio Civile nazionale, in particolare sulle questioni legate alla “difesa civile” della Patria.

Sono impegnato da molti anni nel Movimento Nonviolento, prima nel Comitato di coordinamento ora anche nel suo Direttivo, e collaboro alla redazione di “Azione nonviolenta”, rivista fondata nel 1964 da Aldo Capitini (www.nonviolenti.org). L’incontro organizzativo e umano fondamentale della mia esperienza personale.

A Reggio Emilia, dove ho scelto di vivere, dopo aver partecipato negli anni a “reti”, “coordinamenti” e “campagne”, ho contribuito a fondare e ad animare la Scuola di Pace(www.comune.re.it/scuoladipace).

Sul web, oltre un “profilo” su facebook (http://www.facebook.com/pasquale.pugliese.31), nel quale sono attivi diversi contatti con amici della nonviolenza di tutta Italia, ho seguito un primo rudimentale blog http://www.pasqualepugliese.blogspot.it nel quale, man mano, ho inserito i principali articoli e interventi, pubblicati o svolti in seminari e contesti formativi, degli ultimi dieci anni.

Attività che adesso proverò a continuare in questa nuova esperienza, in maniera aperta e dialogante, sui temi essenziali, ma spesso rimossi, del nostro vivere comune: la nonviolenza e il disarmo. A cominciare da quello più profondo e difficile, il disarmo culturale.

Un nuovo blog, un nuovo laboratorio.